Ecco diverse schede scritte per ripassare lontani ricordi, attraverso alcune “tessere” del mosaico della mia vita da radioamatore. Lo sforzo fatto per scriverle deriva dalla convinzione che certe esperienze, per quanto fossero banali, si sono verificate soltanto pochi decenni fa. A raccontarle oggi sembra siano trascorsi diversi secoli. Infatti m’è capitato più volte, raccontando qualcuno di questi eventi ai giovani di oggi ed anche ai miei figli, che per loro i fatti narrati avessero connotati incredibili. La sensazione che siano così lontani nel tempo dipende – secondo me – dal fatto che un po’ per tanti eventi, ma nel mondo della radio ancor più, i progressi siano stati così numerosi e rapidi, da falsare sostanzialmente la sensazione del tempo effettivamente trascorso.
Ho iniziato come “ascoltatore di onde corte”. Divenire SWL (Short wave listeners” = ascoltatore di onde corte ) era il passo che dava una ufficialità irrinunciabile e preziosa. C’era tutta una procedura da rispettare ed i tempi d’attesa, per ottenere l’identificativo, erano di fatto un lungo purgatorio. Così avveniva quando soltanto l’ascolto delle comunicazioni radio poteva farti incappare in qualche grave reato, come il sempre citato Regolamento delle Radiocomunicazioni di Atlantic City ben ci ricordava.
SWL 11079 QSL
Perché la radio
La radio è uno dei miei primi ricordi d’infanzia. Ero davvero molto piccolo, ma le immagini che anche oggi riaffiorano sono abbastanza ben definite. La cucina della casa dei miei genitori, la luce rossastra della lampada, talvolta un po’ tremolante quando la tensione scendeva per un carico improvviso. In alto, sopra un mobile, c’era una radio che mio padre accendeva all’ora di cena per ascoltare il giornale radio. Il silenzio era d’obbligo per non disturbare l’ascolto da parte dei grandi. Non credo che seguissi molto le notizie, ma di certo mi arrovellavo per cercare di capire, a mio modo, come quei suoni, le voci, quella musica – ed il gorgheggio del famoso uccellino della RAI – potesse uscire da quella magica scatoletta. Ero autorizzato ad accendere e spegnere; poi quando fui più grande ebbi per le mani una grossa radio dei nonni paterni che aveva le “onde corte”. Le “onde corte”, un qualcosa di fantastico per ascoltare un’infinità di suoni, i più davvero sconosciuti, che non immaginavo nemmeno da dove potessero provenire. Quindi colsi al volo ogni possibile occasione per cercare di comprendere questo imperscrutabile mistero.
L’occasione più propizia si presentava quando mio padre si recava nel negozio del suo amico Freddi Ribelle. Ribelle un nome che non si dimentica! Qui c’era un laboratorio, per me fantastico, dove si vedevano tante radio, a decine, tutte sul banco di lavoro, a pancia aperta; assieme a giradischi, grammofoni, stufette elettriche ed anche qualche piccolo elettrodomestico. Guardavo, curiosavo, spiavo, senza aver il coraggio di chiedere. Al massimo riuscivo a carpire qualche particolare dettaglio quando veniva pronunciata la diagnosi, prima di riparare e richiudere “il paziente”.
Vedere era molto, ma non tutto. Cercare di capire comportava degli “atti di fede”, anche se il tester – anche questo uno strumento per me da sogno – quasi sempre confermava la diagnosi e suggellava la riparazione.
Per un ragazzo di meno di 10 anni era piuttosto difficile comprendere qualcosa sulle onde radio, ancor più sulla loro propagazione. I primi circuiti elementari però funzionavano ed anche le prove dei frequenti cortocircuiti erano attestati di fede assoluta.
Ricordo i primi apparecchi televisivi nel 1954 e, per la cronaca, le immagini terribili della rivolta ungherese nel 1956.
Non ricordo in quale anno ebbi un regalo eccezionale: una radio a galena. Il funzionamento si otteneva con molta pazienza e con un pizzico di fortuna muovendo il “baffo” all’interno del tubetto di vetro che racchiudeva il cristallo di solfuro di piombo, fino a rivelare il segnale radio. Si ascoltavano poche stazioni in Onde Medie e, abitando a Senigallia nei pressi della caserma del VII° Reparto Mobile della Polizia, cioè la famosa “Celere”, in alcuni orari della sera mi perseguitava un disturbo di forte intensità e persistente, alle volte per ore. Era la loro stazione radiotelegrafica che “splatterava”; per di più con tutti questi punti e linee, per me davvero incomprensibili.
Aggiungasi che la cuffia rigida, in bachelite nera, con archetto rigido di metallo cromato, m’infuocava i padiglioni auricolari: si potrebbe dire che l’ascolto era una vera sofferenza, che per di più aumentava con il passare del tempo.
C’è ancora un aspetto che tengo a ricordare ai giovani d’oggi, aspiranti OM se ce ne sono. E’ quello dell’educazione, dell’apprendimento, dell’iniziazione al mondo della radio e dell’elettronica. Forse può essere utile per comprendere meglio anche perché un radioamatore poi si definisca OM (Old Men).
Mi sovviene molto bene, e quasi avverto ancor oggi qualche dolorino ai polpacci quando sono in estensione, momenti lontani oltre mezzo secolo. Avveniva che per restare in piedi, protesi il più possibile, ma sempre dietro all’OM seduto, ti scoppiasse un dolore terribile alle gambe. Lui seduto e concentrato di fronte alla radio “celebrava” il rito dell’ascolto e dei QSO, cioè i collegamenti. Sento ancora dentro di me quel senso di gioia del momento magico in cui il corrispondente – chissà se nella steppa siberiana o nella foresta del Mato Grosso – offre un cenno di risposta. E’ affascinante quel filo di voce che il suo segnale ci porta. Poi il nome, i rapporti, le caratteristiche della stazione e gli immancabili dati meteorologici, magari un po’ particolari per come c’immaginiamo noi che si trovi il corrispondente. Ed ecco infine la raccomandazione per la QSL di conferma, sempre via bureau!
Così, quando un “apprendista”, magari dopo due anni che si faceva le ossa con l’ascolto quale SWL, saliva di grado era abilitato a “fare gli accordi”. Allora si poteva dire ammesso nel “tempio” in quanto gli era affidato un compito difficile, da non sbagliare e da condurre in fretta, con buona destrezza in quanto il “capitale” della valvola finale si trovava affidato alle mani ancora inesperte del “chierico”. Gli accordi andavano fatti a puntino e rapidamente per non mettere in gioco la salute delle valvole. A quei tempi una valvola finale, fosse anche la super diffusa 807, aveva una certa rilevanza finanziaria nel bilancio della stazione d’amatore, tanto che c’era una gara per accaparrarsi quelle dismesse dalla RAI dopo un certo numero d’ore di funzionamento.
Il Monte Cucco
Fui ammesso per la prima volta nel gotha dei radioamatori quando venne a compimento al “spedizione scientifica” sul Monte Cucco.
Era di fatto il primo contest VHF in grande stile, con la partecipazione di tutti gli OM di Senigallia e dintorni, dei loro familiari, di un paio di “aiutanti”.
Ero alla prima esperienza sul campo, ma gli altri sapevano che come boy-scout mi destreggiavo abbastanza bene con le tende, sapevo come gestire la cucina al campo e per di più, essendo un ragazzo robusto ero senz’altro adatto a trasportare la cassa più scomoda e pesante: quella terribile che conteneva il modulatore del trasmettitore in AM. Un amplificatore di BF Geloso con un pesantissimo trasformatore d’uscita. La cassa di legno, senz’altro molto robusta, aveva gli angoli taglienti che comunque s’appoggiassero sulle spalle, dietro il collo, sembrava che ti togliessero il fiato. Qui però venni soprannominato lo “sherpa” forse immaginando i portatori della spedizione italiana al K2 del 1954.
Di questo evento appenninico conservo alcune immagini. Credo fossero le prime diacolor della mia vita, scattate con la Voinglander Vito CD di mio padre, anche questa avuta fortunosamente in prestito, per la prima volta, grazie all’intercessione di Ribelle, i1 LCP, che era un suo caro amico. Ora le vedete qui e anche se un po’ malandate spero rendano l’idea della “spedizione”.
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Ho ricordato che si trattava di una “spedizione scientifica” anche perché per questi collegamenti radio usavamo delle frequenze al tempo ritenute innovative e di difficile impiego. Per questa performance chiamata “contest”, dovevamo allestire una stazione radio ideale; quindi trasportare molti apparati, più il generatore, la tenda ed i vettovagliamenti per tre giorni. Da non trascurare anche il materiale pesante, ed anche ingombrante, delle varie strutture necessarie per posizionare le antenne. Per l’occasione avevamo pensato di avvertire il Sindaco di Sigillo, il comune del territorio in cui ricadeva la vetta. Per questo eravamo facilitati dalla conoscenza di un concittadino imprenditore delle costruzioni (nell’estate precedente avevo fatto il tirocinio presso la sua impresa che aveva costruito una strada proprio sul quel monte). Venne preannunciato l’arrivo di questa “spedizione scientifica” ed il Sindaco, per collaborare, mise a disposizione un mulo per il trasporto del materiale. Il mulo sarebbe stato condotto da un operaio comunale che lo sapeva gestire. Però il mulo ogni tanto faceva le bizze ed allora Ribelle, LCP, che aveva al suo attivo, da giovanissima recluta, addirittura la “campagna di Russia” ebbe a cimentarsi in un esercizio che voleva facessimo anche noi: accarezzare la bestia, accarezzarla si, ma sotto la pancia! Però non riuscimmo nemmeno così a far avanzare il quadrupede ed allora, sempre memore delle esperienze degli anni ’40, Ribelle suggerì di richiedere un’asina. Questa, posta davanti al mulo da soma, avrebbe dovuto convincere il recalcitrante animale a salire il fianco della montagna con tutto il materiale che aveva sul basto. Fu anche cercata, ma senza successo. E quindi venne tentato l’impiego di un “carriolo”, un carrettino con due ruote di bicicletta che trainato o sospinto avrebbe dovuto facilitare i trasporti…però non fu così.
Una volta allestiti gli impianti in vetta si scoprì che il cristallo dell’oscillatore era fuori frequenza. Goliardo, BER, che era il più preparato in materia, non si perse d’animo. Aprì il contenitore (a quel tempo erano delle scatoline di bachelite!), estrasse la sottile lamina di quarzo e, con calma olimpica e pazienza certosina, cominciò ad assottigliarlo sfregandolo sulla superficie piana del vetro di una bussola. Così continuò per molto tempo, con qualche goccia d’acqua e tracce di polvere di roccia, del posto usata come abrasivo, il più delicato possibile. In questo frangente credo d’essere stato testimone di una ingegnosa astuzia, certamente mai più vista perché poi dei cristalli ci fu una vera inflazione e si passò anche al VFO per quelle bande.
Sulla cresta del Monte Bove
In un’altra occasione di contest decidemmo di andare sui Monti Sibillini. Partimmo in tre anche per via della capienza massima della mia nuovissima tendina canadese, appena acquistata in quel di Bologna. Avremmo passato la notte, un po’ stretti, ma ben protetti all’interno e quindi con la possibilità di fare i nostri QSO anche nelle ore piccole, magari così riportando un sacco di punti. Sempre questa era la fissazione!
La piccola tenda era stata da me equipaggiata con tutta una serie di rinforzi che avrebbero dovuto assicurare la tenuta ai venti più forti, alle raffiche più maledette. Avevo subito provveduto a sostituire tutti i picchetti originali in alluminio con una serie ben più numerosa di robusti picchetti d’acciaio ed avevo preparato diverse controventature di rinforzo che, una volta montate davano un po’ l’impressione di una “piovra” al di sopra della tenda. Pesavano più queste dotazioni aggiunte che l’intera tenda con il sottofondo. D’altronde sulla cresta non si poteva azzardare il rischio d’esser spazzati via ed in effetti il vento ci fu. Soffiò forte, ma gli “ormeggi” tennero molto bene anche se noi si stava comunque un po’ in apprensione, mentre si registravano diversi QSO. Molto pochi però, anche se ricordo tutti con un buon punteggio, in quanto verso Nord e Nord-Est eravamo in posizione ideale.
Il mattino, dopo l’alba e dopo che la nebbia della sera precedente s’era dissolta, mentre smontavano il tutto per scendere a Sarnano avvertimmo più volte, guardando verso il basso, una strana sensazione. Quei tre sciagurati di radioamatori sarebbero anche potuti volar via, dentro la tenda strappata dal vento, come se fossero nella pancia di un dirigibile. Esperienza fatta, però da non ripetere.
Osimo: assistenza radio
La radioassistenza della coppa Fagioli, importante corsa automobilistica in salita anche se di pochi chilometri, si presentava abbastanza facile ad una prima ricognizione. Si pensava di poter collegare tre stazioni, una intermedia, una alla partenza e l’altra al traguardo d’arrivo, con i ricetrasmettitori supereattivi in banda 6 metri costruiti appositamente dagli OM senigalliesi per le precedenti esperienze del Circuito Motoristico di Senigallia. Così non fu, forse a causa dei rilevi collinari tra Osimo Stazione ed il traguardo localizzato nel centro cittadino.
C’era dappertutto un grande trambusto e subito occorreva darsi da fare per mettere in funzione i nostri TX di casa per le decametriche, da usare in banda 28-30 Mhz. Anche qui qualche problema però. Questi erano originati dal fatto che ci si sentiva in onda diretta, si, ma che in quel pomeriggio di un sabato settembrino, giorno delle prove automobilistiche, s’era anche aperta una propagazione spettacolare verso il Sud-America.
Nei pressi della tribuna del traguardo circolava, con un certo nervosismo, un distinto signore in abito blu, che ogni tanto s’avvicinava alla postazione radio e chiedeva notizie. Voleva sapere se questo contatto con le altre due stazioni radio c’era stato oppure no. Noi eravamo ancora indaffarati ad aggiustare le antenne realizzate con una banale piattina TV da 300 Ohm inchiodata su una croce di legno da direzionare alla meglio laddove veniva innalzata. Però non sentivamo gli altri colleghi, che pur dovevano essere al loro posto da un’oretta. Quindi provammo a chiamare noi dall’arrivo, ma al CQ rispose subito un OM argentino. Era un LU5 e la sua voce finì anche in griglia dell’amplificatore di BF che avrebbe dovuto informare il pubblico, già schierato per l’arrivo. Bruno, i1 TM, anche per essere stato diversi anni in Argentina aveva piena padronanza della lingua spagnola e non trovò affatto inopportuno avviare un QSO raccontando al corrispondente che eravamo impegnati all’aperto per dare assistenza radio ad una corsa di automobili, etc. etc.
Di quel QSO “Carrera “ è la parola che ancor oggi ricordo assai bene; questo evento però mandò sulle furie quel distinto signore di cui ho fatto cenno poc’anzi. Mi si avvicino e chiese.” Scusi, ma il suo collega con chi parla?” Per la verità, forse anche visibilmente soddisfatto, risposi. “E’ in contatto con un radioamatore argentino, pensi esattamente dall’altra parte dell’Oceano Atlantico”. Non lo avessi mai detto, a questo punto quel distinto signore scoppiò! “ Come sarebbe a dire – rivolgendosi a Bruno – Lei parla con l’America, con un argentino, e non si riesce a collegarsi con gli altri a 5 chilometri, con la Stazione di Osimo? Lei mi prende per il c…!”. Scoprimmo poi che quel signore era il Presidente dell’Automobil Club di Ancona che organizzava l’evento e che non poteva certo rinunciare al servizio di radioassistenza.
La fiera a Gongaza
Per quel che ricordo di mezzo secolo fa a quei tempi in Italia c’era una sola fiera radiantistica, una sola ed una volta l’anno, a Mantova.
Fui “ammesso” al viaggio tanto atteso che prevedeva la partenza ad ore antelucane (anche perché allora non c’era l’autostrada) ed in quanto volevamo arrivare ai banchi tra i primi.
Guidava l’auto ZYF, sempre attento e preciso, ma lungo la Via Romea, ad uno dei tanti semafori che vi si trovavano, al guidatore sfuggì che era rosso. Passammo oltre, veloci come una schioppettata. C’era andata bene, non era successo nulla, ma dentro di noi immaginavamo, con terrore, il possibile schianto in cui potevamo ritrovarci coinvolti.
L’unico a dire qualcosa di diverso – come spesso accadeva – fu l’ineffabile Ribelle, i1 LCP, che in tante occasioni sottolineava meglio i risvolti finanziari delle vicende, piuttosto che altri aspetti. Stavolta se ne uscì con impressionante naturalezza con questa battuta, davvero sconcertante:” Per fortuna che non c’era il vigile!”.
Di questo viaggio a Mantova, di questa fiera, ricordo solo quest’episodio.
Quella spedizione in motocarro…al Monte della Croce di Arcevia
Fra gli OM senigalliesi i1TM, Bruno, non era certo l’individuo dai tratti più “sociali”. Dopo aver partecipato a vari contest decise di organizzare una spedizione tutta sua, senza rotture di scatole e solo per le decametriche. Mi chiese di affiancarlo ed io accettai subito. La meta non poteva essere molto lontana dovendo raggiungerla con un motocarro della sua ditta ed avrebbe dovuto essere servita dalla rete elettrica, in quanto non avevamo un generatore.
Il Monte della Croce di Arcevia si raggiunge per strada, dopo neanche due chilometri dal centro cittadino. Ai tempi c’era un bar e fu questa struttura a fornirci l’allaccio elettrico.
Già molti sono i ricordi del viaggio da Senigallia, a bordo del motocarro, carico di tutte le attrezzature. Questo era l’unico mezzo disponibile, ma anche il più adatto – di questo c’eravamo convinti – in quanto una volta montata a fianco la tenda ombreggiante per riparare le radio, avremmo potuto dormire con i sacchi a pelo nel pianale di carico, giusto abbassando la sponda posteriore per distendere i piedi.
Credo che il ricordo più incisivo di questa ennesima “spedizione” non sia la messe dei QSO effettuati, quasi tutti dominati da fortissimi segnali di stazioni dell’Est, ma da un problema tecnico di messa a terra degli impianti.
Malgrado avessi predisposto prima di partire un robusto picchetto di ferro angolare, con una grossa vite saldata in testa e con un adatto capocorda. Sul posto, malgrado la pesante mazza che avevamo con noi si rivelo difficile infiggerlo al suolo in quanto dappertutto era pietroso. Alla fine riuscimmo a conficcarlo, ma subito ci accorgemmo che la “qualità della terra” non era affatto buona. Si prendeva la corrente un po’ dappertutto. Per migliorare la situazione, entrambi, facemmo subito pipì sul picchetto, ma con scarsi miglioramenti.
Poco dopo, nel pomeriggio, fummo raggiunti da un gruppetto di ignari escursionisti, molto incuriositi dal luccichio dei pali delle antenne e forse anche dal “gran pavese” (prestatoci da un distributore di carburante!) che garriva al vento. Come sempre accade stavano ascoltando, molto incuriositi, i nostri QSO quando tra una chiamata e l’altra Bruno, giratosi un attimo li guardò in volto e si rivolse loro chiedendo a brutto muso, con una certa determinazione se, per cortesia, avessero voluto farci un favore. Bisognava fare la pipì sul picchetto di terra, per assicurare un miglior contatto! Ci fu un silenzio assoluto, ma dopo una manciata di secondi ci accorgemmo che gli escursionisti, fino ad un attimo prima così appassionatamente interessati alle nostre apparecchiature ed alle comunicazioni in corso, stavano scomparendo di corsa, oltre il crinale.
Ad una richiesta per loro davvero incomprensibile si erano spaventati e, forse pensando di aver a che fare davvero con dei “matti”, se l’erano data a gambe.
Nell’appartamento dei “confinati” ed in una casa di campagna
Quale miglior soluzione poteva esserci di un appartamentino tutto per noi radioamatori? Una residenza in alto, proprio sotto la cella campanaria, del torrione municipale di Morro d’Alba. Era il posto ideale per restare asserragliati nei due giorni di attività non stop dei contest. La soluzione si concretizzò, grazie all’idea ed all’intervento di Romeo ZYF, con il Sindaco del suo paesino natale.
Interpellato sulla possibilità di ospitare una gruppo di radioamatori intenti sempre ad effettuare significativi esperimenti scientifici, ottenemmo la concessione del piccolo appartamento posto lassù in alto. Questo di regola era riservato, come da lunga tradizione, ad accogliere i residenti coatti. Morro d’Alba era infatti tra quelle cittadine della nostra regione che ospitavano quei signori un po’ “chiacchierati” per i quali l’Autorità Giudiziaria disponeva l’obbligo di residenza lontano dalle terre d’origine.
Unico vero problema per il nostro soggiorno era rendere praticabili quelle due stanzette in cui erano stati questi personaggi. Si vedeva e si sentiva a distanza che non le avevamo mai pulite e mantenute in condizioni di minimo decoro igienico.
Rammento bene che lo “sherpa”, dotato di strofinacci, spazzoloni, varechina e sopratutto lisoformio in quantità doveva procedere alla bonifica prima dell’ingresso delle apparecchiature. Era indispensabile rendere almeno decenti le reti da letto su cui appoggiare poi i nostri sacchi a pelo, e – operazione questa davvero impossibile – magari tentare di utilizzare una pentola per far bollire l’acqua destinata agli immancabili spaghetti. Sempre spaghetti alla carbonara che sono stati la specialità di bandiera di tutti gli incontri radioamatoriali!
Però l’utilizzo di questo appartamento durò poco e si concentrò solo nei mesi invernali, quelli più freddi per l’uso delle tende in montagna. Comunque tutti concordammo che era cento volte meglio fare i propri bisogni sull’Appennino, sferzati dal vento gelido, piuttosto che in quei servizi igienici di cui ogni pur severa descrizione sarebbe comunque benevola e riduttiva.
Faccio qui di seguito un cenno ad un’altra memorabile esperienza, quella della stazione operante dal Monte delle Cone, nel territorio di Senigallia. Dire “monte” è un po’ esagerato in quanto trattasi di una collina a meno di due chilometri dal mare, alta meno di cento metri. Una collina però rotonda, liscia e pulita, con un pianoro ed una grossa casa colonica di cui il piano superiore era stato messo a nostra disposizione (grazie a Ribelle ed al mio babbo). Sempre per poter effettuare delle “prove scientifiche” che in questo caso sarebbero dovute culminare con la partecipazione ad un contest in 80 metri con le regioni del Nord-America. In questo caso i nostri scienziati avevano studiato una magnifica ed efficientissima antenna rombica, ben direzionata. L’antenna era stata costruita mettendo in opera (lavoro che richiedeva anche un po’ di lavoro da geometri!) degli altissimi e robusti pali in legno cioè materiale e manovalanza fornita da un OM che lavorava nel “ramo telefonico” (i1 BCT). Il contest non andò affatto male, ma prima gli aspetti costruttivi delle antenne e logistici della trasferta e quelli di convivialità ed amicizia furono senz’altro molto rilevanti e restano tutt’oggi un piacevole ricordo.
Un contest sul Gran Sasso
Quando si decise di partire per il Gran Sasso, sapendo che avremmo fatto del vero alpinismo, ci sentivamo un po’ tutti cresciuti di grado, responsabilizzati e maturi. Però eravamo anche pronti ad incassare un bel risultato in queste graduatorie dei contest VHF.
Non ricordo se fu la seconda volta che tentammo l’impresa, quando abbastanza sicuri di noi, accettammo la compagnia di un ospite che ci teneva ad essere dei nostri. Si trattava di un mite signore, certo meno atletico e preparato di noi tutti, che avrebbe affrontato con ansia non solo l’ascensione su roccia, ma forse anche una tranquilla passeggiata su sentiero. Era un amico di ZYF e con lui A.P. sarebbe andato dappertutto, tanta era la fiducia che aveva. Per sicurezza comunque lo legammo con i cordini di nylon che portavamo con noi per controventare le antenne. Certo non proprio una situazione da scalatori, ma comunque un buon appiglio psicologico per far procedere tranquillo il nostro amico.
La salita al Corno Grande del Gran Sasso si faceva raggiungendo da Pietracamela, ultimo insediamento abitato, i prati di Tivo. Questi sono già a 1450 m di quota; poi si proseguiva in seggiovia fino all’Ara Pietra che è quasi a 2000 metri. Gli imprevisti per salire in seggiovia, con tutta l’apparecchiatura al seguito, sono più difficili da vivere che da immaginare: pensate solo alle antenne, ai “boom” per le medesime che non rendono affatto piacevole quel “volo” appesi al cavo, senza fatica. Scesi dalla seggiovia si proseguiva attraverso il Vallone delle Cornacchie e poi giungeva l’atteso e quasi desiderato (quasi come piccola prova di roccia!) Passo delle Scalette. Qui eravamo vicini al Rifugio Franchetti dove ai tempi pernottammo più volte, prima di salire attraverso il passo del Cannone. Il questa zona i panorami sono eccezionali (con il nevaio sottostante del Calderone che è quasi un ghiacciaio) ed è facile posizionarsi sulla cima del Corno Grande del Gran Sasso, a 2912 metri.
Restando qui solo poche ore abbiamo bene memorizzato le espressioni del volto, dalla meraviglia alla evidente scocciatura, degli escursionisti che raggiungevano la cima. Si saranno detti: ma cosa fanno mai questi strani tipi, con tante apparecchiature scintillanti, ma anche un po’ improvvisate. Cosa mai si diranno, mentre li vediamo estasiati chiacchierare? Per di più in maniera incomprensibile, inframezzando il lor dire con tanti strani ed incomprensibili sigle e numeretti.
I contest sul Monte Petrano e sul Monte Catria
Per uno dei tanti contest che erano divenuti un po’ l’appuntamento fisso al gruppo dei senigalliesi, fu prescelto, dopo lunghi studi, il Monte Petrano. L’accessibilità con le auto era molto facile (mentre sul Catria dove la strada per la vetta era ancora in costruzione dovevamo addirittura portare delle assi di legno da stendere sui fossati di scarico per passarvi sopra!) .
Qui si giungeva fin poco sotto il punto più alto, laddove necessariamente andavano collocate le antenne. Quindi non occorreva, come al Monte Catria, stendere lungo la cresta Nord oltre un chilometro di linea elettrica, rimanendo necessariamente il generatore posizionato di fianco all’ultimo rifugio, quello della Vernosa, a circa 1500 m di quota.
Sul Petrano però non avevamo tenuto conto della forza del vento, a cui per la verità si diceva particolarmente esposta quella montagna. La prova per gli increduli sarebbe dovuta venire dalla presenza sul posto di un lungo tratto di elettrodotto abbattuto dal vento (e poi anche depredato di rame ed isolatori da mani ignote!).
Come sempre la progettazione logistica era affidata all’ingegno degli OM più esperti che avevano stabilito come e dove montare le due tende, una per la stazione radio e l’altra per i turni di riposo. Si diceva che queste, rinforzate a dovere con picchetti e tiranti, avrebbero retto benissimo alle intemperie! Però alle prime avvisaglie di un vento scatenato, dopo alcuni ragionamenti di fisica e matematica, che implicavano l’esercizio della scomposizione di ipotetici poligoni delle forze, venne stabilito che andava rafforzato sopratutto il perimetro di base. Se questo si fosse sollevato la tenda avrebbe potuto “prendere il volo”, portando via tutto.
Per scongiurare questa terribile possibilità, mentre le tende si gonfiavano paurosamente, allo sherpa, cioè al sottoscritto, fu affidato il compito di raccogliere delle pietre, le più grandi possibili, di trasportarle ai bordi della tenda e di posizionarle, con cura. Bisognava procedere come se fosse stato una specie di muretto a secco, tutt’attorno al perimetro. Le pietre dovevano far aderire al suolo il bordo della fiancata della tenda, ma quando si scatenavano le raffiche più potenti, la tenda si gonfiava ed i sassi, anzi le grosse pietre, venivano rovesciate. Per ironia della sorte rotolavano lungo il pendio, anche per diverse decine di metri. Quindi era giocoforza intervenire subito, scendere precipitosamente sul pendio ricoperto da erbe lisce e scivolose, caricare le pietre in spalla e portarle di nuovo in alto, sul bordo della tenda. Magari ogni volta si cercavano di sistemare meglio, puntellandole con altre pietre più piccole, perché restassero ben aderenti al suolo, sempre sopra il bordo della tenda.
Il vento durò tre giorni e più o meno anche questo passatempo! Quando l’emergenza si ripresentava per sistemare ciò che Eolo aveva distrutto gli altri OM mi svegliavano anche durante i turni di riposo. Alla fine ero così stanco che raccontati ai colleghi d’aver avvertito, nel sonno, un dolcissimo suono di campane. Suscitai così una ilarità generale e l’argomento fu occasione di “sfottò” per diverso tempo visto che, a quanto si sapeva le campane più vicine fossero a Cagli, quindi a diversi chilometri di distanza.
Al rientro di notte da uno di questi contest sul Monte Catria Romeo, ZYF, investì ed uccise con l’auto un magnifico esemplare di tasso, una femmina per la precisione. Tocco a me scuoiarla con cura e quindi s’era creata così l’occasione per l’immancabile cena successiva agli expliot radiantistici. La “tassa” arrosto, anche un po’ bruciacchiata, restò per anni un vero mito culinario degli OM senigalliesi.
TIROS 11: dal satellite meteo ad una “tesina” per l’università.
Quando fui prossimo a discutere la mia tesi di laurea in Scienze Naturali – a Bologna, alla fine degli anni ’60 – ebbi l’idea di utilizzare le “strisciate” di immagini che nella stazione di Bruno, i6TM, già ricevevamo da qualche tempo.
Avevo frequentato un corso che aveva consistenti agganci con la meteorologia e pensai di esercitarmi sviluppando l’analisi delle perturbazioni alle medie latitudini. Quindi questo strumento di rilevamento si dimostrò subito prezioso evidenziando molto bene i sistemi nuvolosi.
Il sistema in uso, detto APT da Automatic Picture Trasmission, veniva impiegato da satelliti polari la cui orbita è sincrona a quella del sole. Per ricevere il satellite americano TIROS 11 avevamo montato sul tetto di Bruno, TM, un’antenna costituita da due yagi incrociate a 90°, con due rotori, uno azimutale ed uno zenitale. Il convertitore aveva una frequenza d’ingresso da 134 a 138 Mhz, con l’uscita da 28 a 30 Mhz. Come ricevitore TM aveva un vecchio e nobilissimo BC 603 (quello del carro armato Sherman) recuperato nel giro del surplus. C’era poi in stazione un registratore audio commerciale, del suo negozio di elettrodomestici, ed un modesto oscilloscopio che consentiva la ricostruzione dell’immagine riga per riga, in 200 secondi. Ovviamente la si catturava con una macchina fotografica posta in posa di fronte al tubo catodico.
Con tre fotografie così ottenute, parzialmente sovrapposte le une alle altre, si otteneva la copertura di circa 2700 km con una risoluzione di quasi tre chilometri, direi molto buona per l’epoca.
La grande soddisfazione per Bruno, TM (e per me) fu che una serie di piccoli esperimenti come questi, condotti alla meglio con le nostre limitate conoscenze e senza costi eccessivi o apparati di produzione commerciale, ci avevano consentito di presentare un prodotto finale apprezzabile anche in ambiente accademico.
Un radioamatore in Congo
Un anno dopo la tesina sul satellite meteorologico mi ritrovai impegnato quale volontario della cooperazione internazionale a 6000 chilometri dal QTH, nel cuore dell’Africa, in Congo. Ero nella foresta dell’Ituri, un grado a Nord dell’Equatore, in 9Q5.
Andai a vivere nella regione dei Pigmei, ad Est, verso l’Uganda dove non c’erano comunicazioni di sorta se non quelle, sempre molto problematiche, via strada. Ad ogni spostamento ti sembrava d’essere davvero un pioniere e vivevi nell’incertezza assoluta di quando saresti arrivato. In qualche caso, per motivi commerciali tra ditte e società commerciali ed anche tra le missioni più organizzate e ricche, si poteva impiegare un ricetrasmettitore in AM sulla frequenza di 7.440 Mhz, se ben ricordo.
Il maggior problema era comunque di disporre dell’energia elettrica; per averne serviva sempre un generatore e questo, a sua volta, necessitava del carburante, in Africa ovviamente costoso ed anche difficile da reperire.
Un giorno giunse in visita da noi il superiore provinciale dei missionari. Era un tipo aperto e simpatico, di origini belghe, che si era dotato – all’epoca novità assoluta per il Congo – di un RTX veicolare. Questo avrebbe dovuto funzionare con una antenna applicata al paraurti anteriore della Land Rover, ma la prima inutile prova era stata fatta con l’auto a 100 metri dalla stazione di base. Nei giorni successivi tutti i tentativi fatti per collegarsi, in qualsiasi orario (ad occhio qualcosa di propagazione sapevano anche i missionari) non avevano dato alcun risultato. Il Provinciale, sulla Land Rover, ascoltava gli altri, ma non veniva sentito da nessuna delle “phonie” della rete. Affidatomi il caso tentai di mettere mano all’antenna o meglio la sostituì subito, memore di un esperimento per la banda dei 40 fatto anni prima sul terrazzo di casa. Allora avevo trafficato con un bambù al quale era legata, con del nastro isolante, una trecciola di rame; alla base avevo posto un “bobinone” di una trentina di spire. In Italia le avevo avvolte su un grosso tubo di PVC, residuato di impianti idraulici, ma in Congo questo non c’era. Pertanto presi un paletto di mogano (il legno più diffuso sul posto) lo arrotondai con un attrezzo rudimentale e dopo qualche tentativo ad occhio (non avevo nemmeno un ROSmetro!) mi accorsi che il TX si accordava. All’orario standard per le comunicazioni fui io a chiamare il corrispondente che risposte di primo acchito. Avreste dovuto vedere la faccia di padre Jansenn che già si era rassegnato a chiamare il tecnico della ditta che gli aveva venduto l’apparato e che sarebbe dovuto arrivare da oltre 2000 chilometri di distanza e quindi avrebbe anche presentato un conto molto salato. Dal momento del “miracolo” credo che missionari ed indigeni scorgessero attorno al mio capo una sorta di aureola da stregone dell’elettronica!
Sempre riferito a questo lungo soggiorno in Africa, dal 1971 al 1973, un cenno debbo riservarlo al fraterno amico Carletto, ASH, anche perché a tutt’oggi si dice convinto di “avermi salvato dalla fucilazione”.
In quegli anni le comunicazioni con l’Italia ed il resto del mondo avvenivano soltanto via posta; quando andava tutto bene ogni 15 giorni partivano le nostre lettere ed arrivava il sacco con la corrispondenza.
Una radio non dico da usare legalmente non era assolutamente prevista, ma anche il tentativo di fare il “pirata” sembrava un sogno impossibile. Accadde però che un giorno, andando a Kisangani, l’ex Stanleyville a 600 chilometri dalla mia residenza, ebbi modo rovistando tra vecchi attrezzi della Procura delle Missioni, di rivenire un trasmettitore usato un tempo per la phonie. Era solo un po’ malandato, ma sembrava efficiente, perlomeno era con tutti i componenti. Mancava però il cristallo per l’oscillatore. Presi l’apparato a soli 20 dollari e subito e lo portai con me a Nduye dove risiedevo. Qui avevo una buona radio ricevente, una Panasonic con tutte le bande in OC, con una discreta selettività, con il BFO. Questa mi consentiva di ascoltare bene, ma con l’acquolina in bocca, anche gli OM italiani, persino gente che conoscevo. Iniziai subito la costruzione di una antenna quad visto che almeno per i bambù necessari in Africa avevo una scelta infinita. La montai su un palo così lungo e regolare che sembrava costruito al tornio; avevo scelto con accuratezza in foresta un albero davvero meraviglioso. Escogitai un sistema di elevazione in quanto l’antenna di giorno, per motivi di prudenza da “pirata”, avrebbe dovuto restare adagiata tra le altre erbe, dietro la casa. Però oltre le esercitazioni periodiche di sollevamento l’antenna restò perennemente inattiva: il cristallo chiesto e sollecitato più volte, supplicando di cercarlo e spedirlo presto non giunse mai.
Una grande delusione. Tra le varie ipotesi pensavo allo smarrimento presso le nostre Poste o incolpavo i congolesi, notoriamente di mano lesta visto che, vedendo la busta un po’ panciuta avrebbero ceduto a qualche tentazione.
Solo dopo essere ritornato in Italia, al termine dei due anni seppi dallo stesso ASH che il cristallo non me lo aveva mai spedito!
Si era comportato così con esplicita determinazione, di proposito appunto per “ salvarmi dalla fucilazione “.
Perù 1977: Lake Mountain Scientific Expedition
Con il passare degli anni e mutando vicende della vita e del lavoro divenne sempre più difficile trovare spazio per l’hobby della radio. Noi tutti ben sappiamo infatti quanto ne assorba.
Capitò però un’occasione splendida quando all’inizio del 1977 ebbi modo di partecipare, nell’ambito del mio lavoro di ricercatore presso l’INRCA, ad una spedizione scientifica sulle Ande peruviane. Una spedizione internazionale con oltre 60 colleghi dedite a studi in molteplici discipline ed incentrata sulla presenza di laghi ad alta quota, appunto in quelle montagne.
Dovendo restare in Perù per un mese suggerii al mio “capo” che la maggior parte dei collegamenti con l’Italia potesse essere affidata ad una stazione d’amatore. Avuto un assenso di massima mi attivai con il Ministero delle Telecomunicazioni qui in Italia, e con il corrispondente peruviano a Lima, per ottenere i permessi e le autorizzazioni del caso. Devo dire che con una sola visita in via Cristoforo Colombo a Roma ottenni l’autorizzazione del caso, che poi in Perù fu ratificata con il nominativo di i6KM/OA4.
Una nota ditta milanese che commerciava in apparati radio ci fornì le attrezzature in cambio dell’esclusiva delle foto della stazione che avrebbe operato a 4.500 metri di quota, ma il nostro Ministero, per l’esattezza la Direzione dei Servizi Radioelettrici, aveva prescritto che nelle comunicazioni con l’Italia dovesse avere la precedenza la stazione ufficiale che operava nei pressi di Roma o dal palazzo dell’EUR.
Non ricordo bene se in oltre tre settimane d’attività riuscii a sentirla più di due volte. Però quando mi mettevo in radio, ricevevo abbastanza bene il segnale di i6 TM, l’amico Bruno da Senigallia. In questi frangenti era lui che gioiva ancor più di noi soprattutto perché la sua stazione di fatto risultava migliore, o forse solo meglio “operata”, rispetto a quella ufficiale del Ministero delle PP.TT.
Ecco diverse schede scritte per ripassare lontani ricordi, attraverso alcune “tessere” del mosaico della mia vita da radioamatore. Lo sforzo fatto per scriverle deriva dalla convinzione che certe esperienze, per quanto fossero banali, si sono verificate soltanto pochi decenni fa. A raccontarle oggi sembra siano trascorsi diversi secoli. Infatti m’è capitato più volte, raccontando qualcuno di questi eventi ai giovani di oggi ed anche ai miei figli, che per loro i fatti narrati avessero connotati incredibili. La sensazione che siano così lontani nel tempo dipende – secondo me – dal fatto che un po’ per tanti eventi, ma nel mondo della radio ancor più, i progressi siano stati così numerosi e rapidi, da falsare sostanzialmente la sensazione del tempo effettivamente trascorso.
Ho iniziato come “ascoltatore di onde corte”. Divenire SWL (Short wave listeners” = ascoltatore di onde corte ) era il passo che dava una ufficialità irrinunciabile e preziosa. C’era tutta una procedura da rispettare ed i tempi d’attesa, per ottenere l’identificativo, erano di fatto un lungo purgatorio. Così avveniva quando soltanto l’ascolto delle comunicazioni radio poteva farti incappare in qualche grave reato, come il sempre citato Regolamento delle Radiocomunicazioni di Atlantic City ben ci ricordava.
SWL 11079 QSL
Perché la radio
La radio è uno dei miei primi ricordi d’infanzia. Ero davvero molto piccolo, ma le immagini che anche oggi riaffiorano sono abbastanza ben definite. La cucina della casa dei miei genitori, la luce rossastra della lampada, talvolta un po’ tremolante quando la tensione scendeva per un carico improvviso. In alto, sopra un mobile, c’era una radio che mio padre accendeva all’ora di cena per ascoltare il giornale radio. Il silenzio era d’obbligo per non disturbare l’ascolto da parte dei grandi. Non credo che seguissi molto le notizie, ma di certo mi arrovellavo per cercare di capire, a mio modo, come quei suoni, le voci, quella musica – ed il gorgheggio del famoso uccellino della RAI – potesse uscire da quella magica scatoletta. Ero autorizzato ad accendere e spegnere; poi quando fui più grande ebbi per le mani una grossa radio dei nonni paterni che aveva le “onde corte”. Le “onde corte”, un qualcosa di fantastico per ascoltare un’infinità di suoni, i più davvero sconosciuti, che non immaginavo nemmeno da dove potessero provenire. Quindi colsi al volo ogni possibile occasione per cercare di comprendere questo imperscrutabile mistero.
L’occasione più propizia si presentava quando mio padre si recava nel negozio del suo amico Freddi Ribelle. Ribelle un nome che non si dimentica! Qui c’era un laboratorio, per me fantastico, dove si vedevano tante radio, a decine, tutte sul banco di lavoro, a pancia aperta; assieme a giradischi, grammofoni, stufette elettriche ed anche qualche piccolo elettrodomestico. Guardavo, curiosavo, spiavo, senza aver il coraggio di chiedere. Al massimo riuscivo a carpire qualche particolare dettaglio quando veniva pronunciata la diagnosi, prima di riparare e richiudere “il paziente”.
Vedere era molto, ma non tutto. Cercare di capire comportava degli “atti di fede”, anche se il tester – anche questo uno strumento per me da sogno – quasi sempre confermava la diagnosi e suggellava la riparazione.
Per un ragazzo di meno di 10 anni era piuttosto difficile comprendere qualcosa sulle onde radio, ancor più sulla loro propagazione. I primi circuiti elementari però funzionavano ed anche le prove dei frequenti cortocircuiti erano attestati di fede assoluta.
Ricordo i primi apparecchi televisivi nel 1954 e, per la cronaca, le immagini terribili della rivolta ungherese nel 1956.
Non ricordo in quale anno ebbi un regalo eccezionale: una radio a galena. Il funzionamento si otteneva con molta pazienza e con un pizzico di fortuna muovendo il “baffo” all’interno del tubetto di vetro che racchiudeva il cristallo di solfuro di piombo, fino a rivelare il segnale radio. Si ascoltavano poche stazioni in Onde Medie e, abitando a Senigallia nei pressi della caserma del VII° Reparto Mobile della Polizia, cioè la famosa “Celere”, in alcuni orari della sera mi perseguitava un disturbo di forte intensità e persistente, alle volte per ore. Era la loro stazione radiotelegrafica che “splatterava”; per di più con tutti questi punti e linee, per me davvero incomprensibili.
Aggiungasi che la cuffia rigida, in bachelite nera, con archetto rigido di metallo cromato, m’infuocava i padiglioni auricolari: si potrebbe dire che l’ascolto era una vera sofferenza, che per di più aumentava con il passare del tempo.
C’è ancora un aspetto che tengo a ricordare ai giovani d’oggi, aspiranti OM se ce ne sono. E’ quello dell’educazione, dell’apprendimento, dell’iniziazione al mondo della radio e dell’elettronica. Forse può essere utile per comprendere meglio anche perché un radioamatore poi si definisca OM (Old Men).
Mi sovviene molto bene, e quasi avverto ancor oggi qualche dolorino ai polpacci quando sono in estensione, momenti lontani oltre mezzo secolo. Avveniva che per restare in piedi, protesi il più possibile, ma sempre dietro all’OM seduto, ti scoppiasse un dolore terribile alle gambe. Lui seduto e concentrato di fronte alla radio “celebrava” il rito dell’ascolto e dei QSO, cioè i collegamenti. Sento ancora dentro di me quel senso di gioia del momento magico in cui il corrispondente – chissà se nella steppa siberiana o nella foresta del Mato Grosso – offre un cenno di risposta. E’ affascinante quel filo di voce che il suo segnale ci porta. Poi il nome, i rapporti, le caratteristiche della stazione e gli immancabili dati meteorologici, magari un po’ particolari per come c’immaginiamo noi che si trovi il corrispondente. Ed ecco infine la raccomandazione per la QSL di conferma, sempre via bureau!
Così, quando un “apprendista”, magari dopo due anni che si faceva le ossa con l’ascolto quale SWL, saliva di grado era abilitato a “fare gli accordi”. Allora si poteva dire ammesso nel “tempio” in quanto gli era affidato un compito difficile, da non sbagliare e da condurre in fretta, con buona destrezza in quanto il “capitale” della valvola finale si trovava affidato alle mani ancora inesperte del “chierico”. Gli accordi andavano fatti a puntino e rapidamente per non mettere in gioco la salute delle valvole. A quei tempi una valvola finale, fosse anche la super diffusa 807, aveva una certa rilevanza finanziaria nel bilancio della stazione d’amatore, tanto che c’era una gara per accaparrarsi quelle dismesse dalla RAI dopo un certo numero d’ore di funzionamento.
Il Monte Cucco
Fui ammesso per la prima volta nel gotha dei radioamatori quando venne a compimento al “spedizione scientifica” sul Monte Cucco.
Era di fatto il primo contest VHF in grande stile, con la partecipazione di tutti gli OM di Senigallia e dintorni, dei loro familiari, di un paio di “aiutanti”.
Ero alla prima esperienza sul campo, ma gli altri sapevano che come boy-scout mi destreggiavo abbastanza bene con le tende, sapevo come gestire la cucina al campo e per di più, essendo un ragazzo robusto ero senz’altro adatto a trasportare la cassa più scomoda e pesante: quella terribile che conteneva il modulatore del trasmettitore in AM. Un amplificatore di BF Geloso con un pesantissimo trasformatore d’uscita. La cassa di legno, senz’altro molto robusta, aveva gli angoli taglienti che comunque s’appoggiassero sulle spalle, dietro il collo, sembrava che ti togliessero il fiato. Qui però venni soprannominato lo “sherpa” forse immaginando i portatori della spedizione italiana al K2 del 1954.
Di questo evento appenninico conservo alcune immagini. Credo fossero le prime diacolor della mia vita, scattate con la Voinglander Vito CD di mio padre, anche questa avuta fortunosamente in prestito, per la prima volta, grazie all’intercessione di Ribelle, i1 LCP, che era un suo caro amico. Ora le vedete qui e anche se un po’ malandate spero rendano l’idea della “spedizione”.
Xx xx xx
Ho ricordato che si trattava di una “spedizione scientifica” anche perché per questi collegamenti radio usavamo delle frequenze al tempo ritenute innovative e di difficile impiego. Per questa performance chiamata “contest”, dovevamo allestire una stazione radio ideale; quindi trasportare molti apparati, più il generatore, la tenda ed i vettovagliamenti per tre giorni. Da non trascurare anche il materiale pesante, ed anche ingombrante, delle varie strutture necessarie per posizionare le antenne. Per l’occasione avevamo pensato di avvertire il Sindaco di Sigillo, il comune del territorio in cui ricadeva la vetta. Per questo eravamo facilitati dalla conoscenza di un concittadino imprenditore delle costruzioni (nell’estate precedente avevo fatto il tirocinio presso la sua impresa che aveva costruito una strada proprio sul quel monte). Venne preannunciato l’arrivo di questa “spedizione scientifica” ed il Sindaco, per collaborare, mise a disposizione un mulo per il trasporto del materiale. Il mulo sarebbe stato condotto da un operaio comunale che lo sapeva gestire. Però il mulo ogni tanto faceva le bizze ed allora Ribelle, LCP, che aveva al suo attivo, da giovanissima recluta, addirittura la “campagna di Russia” ebbe a cimentarsi in un esercizio che voleva facessimo anche noi: accarezzare la bestia, accarezzarla si, ma sotto la pancia! Però non riuscimmo nemmeno così a far avanzare il quadrupede ed allora, sempre memore delle esperienze degli anni ’40, Ribelle suggerì di richiedere un’asina. Questa, posta davanti al mulo da soma, avrebbe dovuto convincere il recalcitrante animale a salire il fianco della montagna con tutto il materiale che aveva sul basto. Fu anche cercata, ma senza successo. E quindi venne tentato l’impiego di un “carriolo”, un carrettino con due ruote di bicicletta che trainato o sospinto avrebbe dovuto facilitare i trasporti…però non fu così.
Una volta allestiti gli impianti in vetta si scoprì che il cristallo dell’oscillatore era fuori frequenza. Goliardo, BER, che era il più preparato in materia, non si perse d’animo. Aprì il contenitore (a quel tempo erano delle scatoline di bachelite!), estrasse la sottile lamina di quarzo e, con calma olimpica e pazienza certosina, cominciò ad assottigliarlo sfregandolo sulla superficie piana del vetro di una bussola. Così continuò per molto tempo, con qualche goccia d’acqua e tracce di polvere di roccia, del posto usata come abrasivo, il più delicato possibile. In questo frangente credo d’essere stato testimone di una ingegnosa astuzia, certamente mai più vista perché poi dei cristalli ci fu una vera inflazione e si passò anche al VFO per quelle bande.
Sulla cresta del Monte Bove
In un’altra occasione di contest decidemmo di andare sui Monti Sibillini. Partimmo in tre anche per via della capienza massima della mia nuovissima tendina canadese, appena acquistata in quel di Bologna. Avremmo passato la notte, un po’ stretti, ma ben protetti all’interno e quindi con la possibilità di fare i nostri QSO anche nelle ore piccole, magari così riportando un sacco di punti. Sempre questa era la fissazione!
La piccola tenda era stata da me equipaggiata con tutta una serie di rinforzi che avrebbero dovuto assicurare la tenuta ai venti più forti, alle raffiche più maledette. Avevo subito provveduto a sostituire tutti i picchetti originali in alluminio con una serie ben più numerosa di robusti picchetti d’acciaio ed avevo preparato diverse controventature di rinforzo che, una volta montate davano un po’ l’impressione di una “piovra” al di sopra della tenda. Pesavano più queste dotazioni aggiunte che l’intera tenda con il sottofondo. D’altronde sulla cresta non si poteva azzardare il rischio d’esser spazzati via ed in effetti il vento ci fu. Soffiò forte, ma gli “ormeggi” tennero molto bene anche se noi si stava comunque un po’ in apprensione, mentre si registravano diversi QSO. Molto pochi però, anche se ricordo tutti con un buon punteggio, in quanto verso Nord e Nord-Est eravamo in posizione ideale.
Il mattino, dopo l’alba e dopo che la nebbia della sera precedente s’era dissolta, mentre smontavano il tutto per scendere a Sarnano avvertimmo più volte, guardando verso il basso, una strana sensazione. Quei tre sciagurati di radioamatori sarebbero anche potuti volar via, dentro la tenda strappata dal vento, come se fossero nella pancia di un dirigibile. Esperienza fatta, però da non ripetere.
Osimo: assistenza radio
La radioassistenza della coppa Fagioli, importante corsa automobilistica in salita anche se di pochi chilometri, si presentava abbastanza facile ad una prima ricognizione. Si pensava di poter collegare tre stazioni, una intermedia, una alla partenza e l’altra al traguardo d’arrivo, con i ricetrasmettitori supereattivi in banda 6 metri costruiti appositamente dagli OM senigalliesi per le precedenti esperienze del Circuito Motoristico di Senigallia. Così non fu, forse a causa dei rilevi collinari tra Osimo Stazione ed il traguardo localizzato nel centro cittadino.
C’era dappertutto un grande trambusto e subito occorreva darsi da fare per mettere in funzione i nostri TX di casa per le decametriche, da usare in banda 28-30 Mhz. Anche qui qualche problema però. Questi erano originati dal fatto che ci si sentiva in onda diretta, si, ma che in quel pomeriggio di un sabato settembrino, giorno delle prove automobilistiche, s’era anche aperta una propagazione spettacolare verso il Sud-America.
Nei pressi della tribuna del traguardo circolava, con un certo nervosismo, un distinto signore in abito blu, che ogni tanto s’avvicinava alla postazione radio e chiedeva notizie. Voleva sapere se questo contatto con le altre due stazioni radio c’era stato oppure no. Noi eravamo ancora indaffarati ad aggiustare le antenne realizzate con una banale piattina TV da 300 Ohm inchiodata su una croce di legno da direzionare alla meglio laddove veniva innalzata. Però non sentivamo gli altri colleghi, che pur dovevano essere al loro posto da un’oretta. Quindi provammo a chiamare noi dall’arrivo, ma al CQ rispose subito un OM argentino. Era un LU5 e la sua voce finì anche in griglia dell’amplificatore di BF che avrebbe dovuto informare il pubblico, già schierato per l’arrivo. Bruno, i1 TM, anche per essere stato diversi anni in Argentina aveva piena padronanza della lingua spagnola e non trovò affatto inopportuno avviare un QSO raccontando al corrispondente che eravamo impegnati all’aperto per dare assistenza radio ad una corsa di automobili, etc. etc.
Di quel QSO “Carrera “ è la parola che ancor oggi ricordo assai bene; questo evento però mandò sulle furie quel distinto signore di cui ho fatto cenno poc’anzi. Mi si avvicino e chiese.” Scusi, ma il suo collega con chi parla?” Per la verità, forse anche visibilmente soddisfatto, risposi. “E’ in contatto con un radioamatore argentino, pensi esattamente dall’altra parte dell’Oceano Atlantico”. Non lo avessi mai detto, a questo punto quel distinto signore scoppiò! “ Come sarebbe a dire – rivolgendosi a Bruno – Lei parla con l’America, con un argentino, e non si riesce a collegarsi con gli altri a 5 chilometri, con la Stazione di Osimo? Lei mi prende per il c…!”. Scoprimmo poi che quel signore era il Presidente dell’Automobil Club di Ancona che organizzava l’evento e che non poteva certo rinunciare al servizio di radioassistenza.
La fiera a Gongaza
Per quel che ricordo di mezzo secolo fa a quei tempi in Italia c’era una sola fiera radiantistica, una sola ed una volta l’anno, a Mantova.
Fui “ammesso” al viaggio tanto atteso che prevedeva la partenza ad ore antelucane (anche perché allora non c’era l’autostrada) ed in quanto volevamo arrivare ai banchi tra i primi.
Guidava l’auto ZYF, sempre attento e preciso, ma lungo la Via Romea, ad uno dei tanti semafori che vi si trovavano, al guidatore sfuggì che era rosso. Passammo oltre, veloci come una schioppettata. C’era andata bene, non era successo nulla, ma dentro di noi immaginavamo, con terrore, il possibile schianto in cui potevamo ritrovarci coinvolti.
L’unico a dire qualcosa di diverso – come spesso accadeva – fu l’ineffabile Ribelle, i1 LCP, che in tante occasioni sottolineava meglio i risvolti finanziari delle vicende, piuttosto che altri aspetti. Stavolta se ne uscì con impressionante naturalezza con questa battuta, davvero sconcertante:” Per fortuna che non c’era il vigile!”.
Di questo viaggio a Mantova, di questa fiera, ricordo solo quest’episodio.
Quella spedizione in motocarro…al Monte della Croce di Arcevia
Fra gli OM senigalliesi i1TM, Bruno, non era certo l’individuo dai tratti più “sociali”. Dopo aver partecipato a vari contest decise di organizzare una spedizione tutta sua, senza rotture di scatole e solo per le decametriche. Mi chiese di affiancarlo ed io accettai subito. La meta non poteva essere molto lontana dovendo raggiungerla con un motocarro della sua ditta ed avrebbe dovuto essere servita dalla rete elettrica, in quanto non avevamo un generatore.
Il Monte della Croce di Arcevia si raggiunge per strada, dopo neanche due chilometri dal centro cittadino. Ai tempi c’era un bar e fu questa struttura a fornirci l’allaccio elettrico.
Già molti sono i ricordi del viaggio da Senigallia, a bordo del motocarro, carico di tutte le attrezzature. Questo era l’unico mezzo disponibile, ma anche il più adatto – di questo c’eravamo convinti – in quanto una volta montata a fianco la tenda ombreggiante per riparare le radio, avremmo potuto dormire con i sacchi a pelo nel pianale di carico, giusto abbassando la sponda posteriore per distendere i piedi.
Credo che il ricordo più incisivo di questa ennesima “spedizione” non sia la messe dei QSO effettuati, quasi tutti dominati da fortissimi segnali di stazioni dell’Est, ma da un problema tecnico di messa a terra degli impianti.
Malgrado avessi predisposto prima di partire un robusto picchetto di ferro angolare, con una grossa vite saldata in testa e con un adatto capocorda. Sul posto, malgrado la pesante mazza che avevamo con noi si rivelo difficile infiggerlo al suolo in quanto dappertutto era pietroso. Alla fine riuscimmo a conficcarlo, ma subito ci accorgemmo che la “qualità della terra” non era affatto buona. Si prendeva la corrente un po’ dappertutto. Per migliorare la situazione, entrambi, facemmo subito pipì sul picchetto, ma con scarsi miglioramenti.
Poco dopo, nel pomeriggio, fummo raggiunti da un gruppetto di ignari escursionisti, molto incuriositi dal luccichio dei pali delle antenne e forse anche dal “gran pavese” (prestatoci da un distributore di carburante!) che garriva al vento. Come sempre accade stavano ascoltando, molto incuriositi, i nostri QSO quando tra una chiamata e l’altra Bruno, giratosi un attimo li guardò in volto e si rivolse loro chiedendo a brutto muso, con una certa determinazione se, per cortesia, avessero voluto farci un favore. Bisognava fare la pipì sul picchetto di terra, per assicurare un miglior contatto! Ci fu un silenzio assoluto, ma dopo una manciata di secondi ci accorgemmo che gli escursionisti, fino ad un attimo prima così appassionatamente interessati alle nostre apparecchiature ed alle comunicazioni in corso, stavano scomparendo di corsa, oltre il crinale.
Ad una richiesta per loro davvero incomprensibile si erano spaventati e, forse pensando di aver a che fare davvero con dei “matti”, se l’erano data a gambe.
Nell’appartamento dei “confinati” ed in una casa di campagna
Quale miglior soluzione poteva esserci di un appartamentino tutto per noi radioamatori? Una residenza in alto, proprio sotto la cella campanaria, del torrione municipale di Morro d’Alba. Era il posto ideale per restare asserragliati nei due giorni di attività non stop dei contest. La soluzione si concretizzò, grazie all’idea ed all’intervento di Romeo ZYF, con il Sindaco del suo paesino natale.
Interpellato sulla possibilità di ospitare una gruppo di radioamatori intenti sempre ad effettuare significativi esperimenti scientifici, ottenemmo la concessione del piccolo appartamento posto lassù in alto. Questo di regola era riservato, come da lunga tradizione, ad accogliere i residenti coatti. Morro d’Alba era infatti tra quelle cittadine della nostra regione che ospitavano quei signori un po’ “chiacchierati” per i quali l’Autorità Giudiziaria disponeva l’obbligo di residenza lontano dalle terre d’origine.
Unico vero problema per il nostro soggiorno era rendere praticabili quelle due stanzette in cui erano stati questi personaggi. Si vedeva e si sentiva a distanza che non le avevamo mai pulite e mantenute in condizioni di minimo decoro igienico.
Rammento bene che lo “sherpa”, dotato di strofinacci, spazzoloni, varechina e sopratutto lisoformio in quantità doveva procedere alla bonifica prima dell’ingresso delle apparecchiature. Era indispensabile rendere almeno decenti le reti da letto su cui appoggiare poi i nostri sacchi a pelo, e – operazione questa davvero impossibile – magari tentare di utilizzare una pentola per far bollire l’acqua destinata agli immancabili spaghetti. Sempre spaghetti alla carbonara che sono stati la specialità di bandiera di tutti gli incontri radioamatoriali!
Però l’utilizzo di questo appartamento durò poco e si concentrò solo nei mesi invernali, quelli più freddi per l’uso delle tende in montagna. Comunque tutti concordammo che era cento volte meglio fare i propri bisogni sull’Appennino, sferzati dal vento gelido, piuttosto che in quei servizi igienici di cui ogni pur severa descrizione sarebbe comunque benevola e riduttiva.
Faccio qui di seguito un cenno ad un’altra memorabile esperienza, quella della stazione operante dal Monte delle Cone, nel territorio di Senigallia. Dire “monte” è un po’ esagerato in quanto trattasi di una collina a meno di due chilometri dal mare, alta meno di cento metri. Una collina però rotonda, liscia e pulita, con un pianoro ed una grossa casa colonica di cui il piano superiore era stato messo a nostra disposizione (grazie a Ribelle ed al mio babbo). Sempre per poter effettuare delle “prove scientifiche” che in questo caso sarebbero dovute culminare con la partecipazione ad un contest in 80 metri con le regioni del Nord-America. In questo caso i nostri scienziati avevano studiato una magnifica ed efficientissima antenna rombica, ben direzionata. L’antenna era stata costruita mettendo in opera (lavoro che richiedeva anche un po’ di lavoro da geometri!) degli altissimi e robusti pali in legno cioè materiale e manovalanza fornita da un OM che lavorava nel “ramo telefonico” (i1 BCT). Il contest non andò affatto male, ma prima gli aspetti costruttivi delle antenne e logistici della trasferta e quelli di convivialità ed amicizia furono senz’altro molto rilevanti e restano tutt’oggi un piacevole ricordo.
Un contest sul Gran Sasso
Quando si decise di partire per il Gran Sasso, sapendo che avremmo fatto del vero alpinismo, ci sentivamo un po’ tutti cresciuti di grado, responsabilizzati e maturi. Però eravamo anche pronti ad incassare un bel risultato in queste graduatorie dei contest VHF.
Non ricordo se fu la seconda volta che tentammo l’impresa, quando abbastanza sicuri di noi, accettammo la compagnia di un ospite che ci teneva ad essere dei nostri. Si trattava di un mite signore, certo meno atletico e preparato di noi tutti, che avrebbe affrontato con ansia non solo l’ascensione su roccia, ma forse anche una tranquilla passeggiata su sentiero. Era un amico di ZYF e con lui A.P. sarebbe andato dappertutto, tanta era la fiducia che aveva. Per sicurezza comunque lo legammo con i cordini di nylon che portavamo con noi per controventare le antenne. Certo non proprio una situazione da scalatori, ma comunque un buon appiglio psicologico per far procedere tranquillo il nostro amico.
La salita al Corno Grande del Gran Sasso si faceva raggiungendo da Pietracamela, ultimo insediamento abitato, i prati di Tivo. Questi sono già a 1450 m di quota; poi si proseguiva in seggiovia fino all’Ara Pietra che è quasi a 2000 metri. Gli imprevisti per salire in seggiovia, con tutta l’apparecchiatura al seguito, sono più difficili da vivere che da immaginare: pensate solo alle antenne, ai “boom” per le medesime che non rendono affatto piacevole quel “volo” appesi al cavo, senza fatica. Scesi dalla seggiovia si proseguiva attraverso il Vallone delle Cornacchie e poi giungeva l’atteso e quasi desiderato (quasi come piccola prova di roccia!) Passo delle Scalette. Qui eravamo vicini al Rifugio Franchetti dove ai tempi pernottammo più volte, prima di salire attraverso il passo del Cannone. Il questa zona i panorami sono eccezionali (con il nevaio sottostante del Calderone che è quasi un ghiacciaio) ed è facile posizionarsi sulla cima del Corno Grande del Gran Sasso, a 2912 metri.
Restando qui solo poche ore abbiamo bene memorizzato le espressioni del volto, dalla meraviglia alla evidente scocciatura, degli escursionisti che raggiungevano la cima. Si saranno detti: ma cosa fanno mai questi strani tipi, con tante apparecchiature scintillanti, ma anche un po’ improvvisate. Cosa mai si diranno, mentre li vediamo estasiati chiacchierare? Per di più in maniera incomprensibile, inframezzando il lor dire con tanti strani ed incomprensibili sigle e numeretti.
I contest sul Monte Petrano e sul Monte Catria
Per uno dei tanti contest che erano divenuti un po’ l’appuntamento fisso al gruppo dei senigalliesi, fu prescelto, dopo lunghi studi, il Monte Petrano. L’accessibilità con le auto era molto facile (mentre sul Catria dove la strada per la vetta era ancora in costruzione dovevamo addirittura portare delle assi di legno da stendere sui fossati di scarico per passarvi sopra!) .
Qui si giungeva fin poco sotto il punto più alto, laddove necessariamente andavano collocate le antenne. Quindi non occorreva, come al Monte Catria, stendere lungo la cresta Nord oltre un chilometro di linea elettrica, rimanendo necessariamente il generatore posizionato di fianco all’ultimo rifugio, quello della Vernosa, a circa 1500 m di quota.
Sul Petrano però non avevamo tenuto conto della forza del vento, a cui per la verità si diceva particolarmente esposta quella montagna. La prova per gli increduli sarebbe dovuta venire dalla presenza sul posto di un lungo tratto di elettrodotto abbattuto dal vento (e poi anche depredato di rame ed isolatori da mani ignote!).
Come sempre la progettazione logistica era affidata all’ingegno degli OM più esperti che avevano stabilito come e dove montare le due tende, una per la stazione radio e l’altra per i turni di riposo. Si diceva che queste, rinforzate a dovere con picchetti e tiranti, avrebbero retto benissimo alle intemperie! Però alle prime avvisaglie di un vento scatenato, dopo alcuni ragionamenti di fisica e matematica, che implicavano l’esercizio della scomposizione di ipotetici poligoni delle forze, venne stabilito che andava rafforzato sopratutto il perimetro di base. Se questo si fosse sollevato la tenda avrebbe potuto “prendere il volo”, portando via tutto.
Per scongiurare questa terribile possibilità, mentre le tende si gonfiavano paurosamente, allo sherpa, cioè al sottoscritto, fu affidato il compito di raccogliere delle pietre, le più grandi possibili, di trasportarle ai bordi della tenda e di posizionarle, con cura. Bisognava procedere come se fosse stato una specie di muretto a secco, tutt’attorno al perimetro. Le pietre dovevano far aderire al suolo il bordo della fiancata della tenda, ma quando si scatenavano le raffiche più potenti, la tenda si gonfiava ed i sassi, anzi le grosse pietre, venivano rovesciate. Per ironia della sorte rotolavano lungo il pendio, anche per diverse decine di metri. Quindi era giocoforza intervenire subito, scendere precipitosamente sul pendio ricoperto da erbe lisce e scivolose, caricare le pietre in spalla e portarle di nuovo in alto, sul bordo della tenda. Magari ogni volta si cercavano di sistemare meglio, puntellandole con altre pietre più piccole, perché restassero ben aderenti al suolo, sempre sopra il bordo della tenda.
Il vento durò tre giorni e più o meno anche questo passatempo! Quando l’emergenza si ripresentava per sistemare ciò che Eolo aveva distrutto gli altri OM mi svegliavano anche durante i turni di riposo. Alla fine ero così stanco che raccontati ai colleghi d’aver avvertito, nel sonno, un dolcissimo suono di campane. Suscitai così una ilarità generale e l’argomento fu occasione di “sfottò” per diverso tempo visto che, a quanto si sapeva le campane più vicine fossero a Cagli, quindi a diversi chilometri di distanza.
Al rientro di notte da uno di questi contest sul Monte Catria Romeo, ZYF, investì ed uccise con l’auto un magnifico esemplare di tasso, una femmina per la precisione. Tocco a me scuoiarla con cura e quindi s’era creata così l’occasione per l’immancabile cena successiva agli expliot radiantistici. La “tassa” arrosto, anche un po’ bruciacchiata, restò per anni un vero mito culinario degli OM senigalliesi.
TIROS 11: dal satellite meteo ad una “tesina” per l’università.
Quando fui prossimo a discutere la mia tesi di laurea in Scienze Naturali – a Bologna, alla fine degli anni ’60 – ebbi l’idea di utilizzare le “strisciate” di immagini che nella stazione di Bruno, i6TM, già ricevevamo da qualche tempo.
Avevo frequentato un corso che aveva consistenti agganci con la meteorologia e pensai di esercitarmi sviluppando l’analisi delle perturbazioni alle medie latitudini. Quindi questo strumento di rilevamento si dimostrò subito prezioso evidenziando molto bene i sistemi nuvolosi.
Il sistema in uso, detto APT da Automatic Picture Trasmission, veniva impiegato da satelliti polari la cui orbita è sincrona a quella del sole. Per ricevere il satellite americano TIROS 11 avevamo montato sul tetto di Bruno, TM, un’antenna costituita da due yagi incrociate a 90°, con due rotori, uno azimutale ed uno zenitale. Il convertitore aveva una frequenza d’ingresso da 134 a 138 Mhz, con l’uscita da 28 a 30 Mhz. Come ricevitore TM aveva un vecchio e nobilissimo BC 603 (quello del carro armato Sherman) recuperato nel giro del surplus. C’era poi in stazione un registratore audio commerciale, del suo negozio di elettrodomestici, ed un modesto oscilloscopio che consentiva la ricostruzione dell’immagine riga per riga, in 200 secondi. Ovviamente la si catturava con una macchina fotografica posta in posa di fronte al tubo catodico.
Con tre fotografie così ottenute, parzialmente sovrapposte le une alle altre, si otteneva la copertura di circa 2700 km con una risoluzione di quasi tre chilometri, direi molto buona per l’epoca.
La grande soddisfazione per Bruno, TM (e per me) fu che una serie di piccoli esperimenti come questi, condotti alla meglio con le nostre limitate conoscenze e senza costi eccessivi o apparati di produzione commerciale, ci avevano consentito di presentare un prodotto finale apprezzabile anche in ambiente accademico.
Un radioamatore in Congo
Un anno dopo la tesina sul satellite meteorologico mi ritrovai impegnato quale volontario della cooperazione internazionale a 6000 chilometri dal QTH, nel cuore dell’Africa, in Congo. Ero nella foresta dell’Ituri, un grado a Nord dell’Equatore, in 9Q5.
Andai a vivere nella regione dei Pigmei, ad Est, verso l’Uganda dove non c’erano comunicazioni di sorta se non quelle, sempre molto problematiche, via strada. Ad ogni spostamento ti sembrava d’essere davvero un pioniere e vivevi nell’incertezza assoluta di quando saresti arrivato. In qualche caso, per motivi commerciali tra ditte e società commerciali ed anche tra le missioni più organizzate e ricche, si poteva impiegare un ricetrasmettitore in AM sulla frequenza di 7.440 Mhz, se ben ricordo.
Il maggior problema era comunque di disporre dell’energia elettrica; per averne serviva sempre un generatore e questo, a sua volta, necessitava del carburante, in Africa ovviamente costoso ed anche difficile da reperire.
Un giorno giunse in visita da noi il superiore provinciale dei missionari. Era un tipo aperto e simpatico, di origini belghe, che si era dotato – all’epoca novità assoluta per il Congo – di un RTX veicolare. Questo avrebbe dovuto funzionare con una antenna applicata al paraurti anteriore della Land Rover, ma la prima inutile prova era stata fatta con l’auto a 100 metri dalla stazione di base. Nei giorni successivi tutti i tentativi fatti per collegarsi, in qualsiasi orario (ad occhio qualcosa di propagazione sapevano anche i missionari) non avevano dato alcun risultato. Il Provinciale, sulla Land Rover, ascoltava gli altri, ma non veniva sentito da nessuna delle “phonie” della rete. Affidatomi il caso tentai di mettere mano all’antenna o meglio la sostituì subito, memore di un esperimento per la banda dei 40 fatto anni prima sul terrazzo di casa. Allora avevo trafficato con un bambù al quale era legata, con del nastro isolante, una trecciola di rame; alla base avevo posto un “bobinone” di una trentina di spire. In Italia le avevo avvolte su un grosso tubo di PVC, residuato di impianti idraulici, ma in Congo questo non c’era. Pertanto presi un paletto di mogano (il legno più diffuso sul posto) lo arrotondai con un attrezzo rudimentale e dopo qualche tentativo ad occhio (non avevo nemmeno un ROSmetro!) mi accorsi che il TX si accordava. All’orario standard per le comunicazioni fui io a chiamare il corrispondente che risposte di primo acchito. Avreste dovuto vedere la faccia di padre Jansenn che già si era rassegnato a chiamare il tecnico della ditta che gli aveva venduto l’apparato e che sarebbe dovuto arrivare da oltre 2000 chilometri di distanza e quindi avrebbe anche presentato un conto molto salato. Dal momento del “miracolo” credo che missionari ed indigeni scorgessero attorno al mio capo una sorta di aureola da stregone dell’elettronica!
Sempre riferito a questo lungo soggiorno in Africa, dal 1971 al 1973, un cenno debbo riservarlo al fraterno amico Carletto, ASH, anche perché a tutt’oggi si dice convinto di “avermi salvato dalla fucilazione”.
In quegli anni le comunicazioni con l’Italia ed il resto del mondo avvenivano soltanto via posta; quando andava tutto bene ogni 15 giorni partivano le nostre lettere ed arrivava il sacco con la corrispondenza.
Una radio non dico da usare legalmente non era assolutamente prevista, ma anche il tentativo di fare il “pirata” sembrava un sogno impossibile. Accadde però che un giorno, andando a Kisangani, l’ex Stanleyville a 600 chilometri dalla mia residenza, ebbi modo rovistando tra vecchi attrezzi della Procura delle Missioni, di rivenire un trasmettitore usato un tempo per la phonie. Era solo un po’ malandato, ma sembrava efficiente, perlomeno era con tutti i componenti. Mancava però il cristallo per l’oscillatore. Presi l’apparato a soli 20 dollari e subito e lo portai con me a Nduye dove risiedevo. Qui avevo una buona radio ricevente, una Panasonic con tutte le bande in OC, con una discreta selettività, con il BFO. Questa mi consentiva di ascoltare bene, ma con l’acquolina in bocca, anche gli OM italiani, persino gente che conoscevo. Iniziai subito la costruzione di una antenna quad visto che almeno per i bambù necessari in Africa avevo una scelta infinita. La montai su un palo così lungo e regolare che sembrava costruito al tornio; avevo scelto con accuratezza in foresta un albero davvero meraviglioso. Escogitai un sistema di elevazione in quanto l’antenna di giorno, per motivi di prudenza da “pirata”, avrebbe dovuto restare adagiata tra le altre erbe, dietro la casa. Però oltre le esercitazioni periodiche di sollevamento l’antenna restò perennemente inattiva: il cristallo chiesto e sollecitato più volte, supplicando di cercarlo e spedirlo presto non giunse mai.
Una grande delusione. Tra le varie ipotesi pensavo allo smarrimento presso le nostre Poste o incolpavo i congolesi, notoriamente di mano lesta visto che, vedendo la busta un po’ panciuta avrebbero ceduto a qualche tentazione.
Solo dopo essere ritornato in Italia, al termine dei due anni seppi dallo stesso ASH che il cristallo non me lo aveva mai spedito!
Si era comportato così con esplicita determinazione, di proposito appunto per “ salvarmi dalla fucilazione “.
Perù 1977: Lake Mountain Scientific Expedition
Con il passare degli anni e mutando vicende della vita e del lavoro divenne sempre più difficile trovare spazio per l’hobby della radio. Noi tutti ben sappiamo infatti quanto ne assorba.
Capitò però un’occasione splendida quando all’inizio del 1977 ebbi modo di partecipare, nell’ambito del mio lavoro di ricercatore presso l’INRCA, ad una spedizione scientifica sulle Ande peruviane. Una spedizione internazionale con oltre 60 colleghi dedite a studi in molteplici discipline ed incentrata sulla presenza di laghi ad alta quota, appunto in quelle montagne.
Dovendo restare in Perù per un mese suggerii al mio “capo” che la maggior parte dei collegamenti con l’Italia potesse essere affidata ad una stazione d’amatore. Avuto un assenso di massima mi attivai con il Ministero delle Telecomunicazioni qui in Italia, e con il corrispondente peruviano a Lima, per ottenere i permessi e le autorizzazioni del caso. Devo dire che con una sola visita in via Cristoforo Colombo a Roma ottenni l’autorizzazione del caso, che poi in Perù fu ratificata con il nominativo di i6KM/OA4.
Una nota ditta milanese che commerciava in apparati radio ci fornì le attrezzature in cambio dell’esclusiva delle foto della stazione che avrebbe operato a 4.500 metri di quota, ma il nostro Ministero, per l’esattezza la Direzione dei Servizi Radioelettrici, aveva prescritto che nelle comunicazioni con l’Italia dovesse avere la precedenza la stazione ufficiale che operava nei pressi di Roma o dal palazzo dell’EUR.
Non ricordo bene se in oltre tre settimane d’attività riuscii a sentirla più di due volte. Però quando mi mettevo in radio, ricevevo abbastanza bene il segnale di i6 TM, l’amico Bruno da Senigallia. In questi frangenti era lui che gioiva ancor più di noi soprattutto perché la sua stazione di fatto risultava migliore, o forse solo meglio “operata”, rispetto a quella ufficiale del Ministero delle PP.TT.
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