Un naturalista si racconta

comitato faro Goro

Naturalista? Potrebbe esserci un perché nella storia della famiglia: mio nonno Luigi si era diplomato, all’inizio del ‘900, nell’allora famosa scuola agraria di Grumello del Monte. Quindi mio padre Mario, pur se molto versato per la meccanica, aveva seguito  l’indirizzo di casa frequentando, all’inizio degli anni ’30, la Scuola Agraria di Macerata. Quindi negli anni successivi divenne uno  dei tecnici più stimati dell’azienda agraria dell’Opera Pia Mastai Ferretti, a Senigallia, città dove sono nato. Anche mio nonno materno, Carlo Cenerelli, prima di laurearsi in medicina era stato per anni uno stimato veterinario ed aveva sempre conservato una intensa passione per la campagna. 

Fin dalla più tenera età ho quindi sempre vissuto questo tipo di ambienti. Di fatto avendo così numerose occasioni quotidiane d’immersione nella natura e, di volta in volta, con qualche buona guida, ne scoprivo gli aspetti più interessanti.

Ricordo che da bambino, quando frequentavo le elementari, m’impegnai per molti mesi per realizzare un piccolo museo di storia naturale. L’avevo allestito all’interno di un vecchio pollaio in muratura, nel grande giardino di casa. Il primo visitatore che mi fece sussultare di gioia fu l’insegnate di scienze al liceo cittadino, la professoressa Irma Pierpaoli. Ogni tanto la signora veniva a farci visita anche perché, tra le varie attrattive del giardino, c’era una grande voliera metallica che mio padre aveva realizzato artigianalmente. Penso che per allora sia stata una costruzione un po’ fuori dalla norma in quanto era alta ben sei metri. Dopo un lungo e severo apprendistato ero stato “abilitato” a  gestire la routine della voliera e progressivamente potevo provvedere io stesso all’immissione di nuovi esemplari. Ai tempi (anni ’50) le diverse specie catturabili, che anche molti amici e conoscenti ci consegnavano in ogni stagione, erano le più svariate. Talvolta ve ne erano anche di rare. Ricordo bene che nell’assortimento non mancava mai il cosiddetto “paccaosso”, cioè il frosone. Del suo becco robustissimo porto ancora una piccola cicatrice ad un dito!

Un po’ tutti gli antenati di famiglia erano stati cacciatori, tanto che conservo ancor oggi appunti ed annotazioni dell’inizio ‘900. Mia nonna materna, deceduta all’inizio degli anni ’70, era stata una appassionata cacciatrice. Lei stessa raccontava di un antenato ottocentesco, certo don Luca, che a seguito della fuoriuscita di grosse fiammate dalle culatte di fucili, evidentemente assai mal ridotti, indossava un copricapo da prete, il famoso “tricorno”, tutto bruciacchiato.  All’esercizio venatorio mi dedicai anche io fin da bambino, ma chiusi con la caccia nell’anno 1970 quando, per una scelta di razionalità, decisi di appendere il fucile al chiodo. Era proprio l’anno in cui presentavo la tesi di laurea a Bologna, tesi che doveva essere accompagnata  da due cosiddette “tesine”. Per quella di argomento zoologico avevo concordato un piccolo studio sulle migrazioni nelle Marche. Il relatore era il professor Augusto Toschi, direttore dell’allora Laboratorio di Zoologia Applicata alla Caccia. Molti sono i ricordi a proposito di grandi studiosi e ricercatori avuti come maestri, ma ad uno in particolare faccio riferimento appunto per il professor Toschi. Un pomeriggio ero nel suo studio e lui, conoscendo le mie origini marchigiane, mi stuzzicava circa i cacciatori marchigiani responsabili di aver introdotto sul territorio grossi cinghiali, per di più di assurde provenienze. Mentre lui mi ammoniva per le colpe della categorie il mio sguardo si era però posato su una bella doppietta, custodita di fianco ad una grande libreria, poco dietro la cattedra. Non restai in silenzio e dissi “Professore, mi fa la predica proprio Lei, con quel calibro 12!

Credo di ricordare che il momento d’incontro con l’ambientalismo ante litteram sia avvenuto, per me, all’inizio degli anni ’60,  ad una edicola della stazione di Bologna. Acquistai qui un libro, edito da Feltrinelli, dal titolo “Primavera Silenziosa”. Era l’opera famosa di Rachel Carson che conservo con affetto tutt’ora.

Questo e tanti altri scritti del settore hanno segnato la mia vita in modo particolare. Il primo esempio, forse il più significativo, penso venga dagli scritti di Jean Dorst, il famoso professore dell’Università di Parigi. Conoscevo Jean Dorst già per un bellissimo libro sulle migrazioni degli uccelli, ma l’opera  più famosa, tradotta poi in numerose lingue, opera anche significativa per tanti miei amici, è stata senz’altro: “Prima che la natura muoia”.

Quando nell’arco della vita, raggiunto il diploma di geometra di cui i miei genitori volevano disponessi come di “un paracadute di sicurezza”, mi si offrì la possibilità di continuare gli studi, senza esitazioni decisi subito per il corso di laurea in Scienze Naturali. La scelta cadde su Bologna, anche per il fascino dell’ateneo in cui aleggiava ancora la presenza del grande Alessandro Ghigi, che ebbi la ventura di conoscere e frequentare per quanto fosse molto anziano.  Nei primi anni delle scuole elementari la mia lettura preferita era stata, tra i volumi di casa, un’opera appartenuta a mio nonno. I volumi monumentali di Alfred Edmund Brehm, “La vita degli animali”, nell’edizione italiana del 1896-1900.  Allora non c’era la televisione; dopo giornate passate quasi sempre all’aperto, in campagna, quella divagazione serale mi affascinava. Mi coinvolgeva così tanto che successivamente, frequentando la Scuola Media, una insegnante fece osservare ai miei genitori  come mi esprimessi con uno stile un po’ particolare. Alla fine si scoprì che il Brehm mi aveva condizionato anche per la prosa dei cosiddetti “temi d’italiano”!

A Bologna, pur incontrando le prime difficoltà di quel sogno da naturalista che avevo coltivato fin bambino, ebbi però la fortuna di intessere immediatamente, fin dal primo anno, una articolata rete di contatti con diversi compagni di corso, naturalisti, biologi e geologi. Questi poi si rivelarono veri specialisti, in molte branche di comune interesse. Avevo giornate davvero piene in quanto frequentavo tutte le lezioni; anzi, talvolta, andavo anche a curiosare altrove per capire di cosa si occupassero in altri corsi. Del primo anno rammento con nostalgia le belle escursioni sui “gessi bolognesi” assieme ad guida espertissima: Luigi Donini di S. Lazzaro di Savena. Un compagno indimenticabile che, dopo pochi mesi, donò la sua vita per soccorrere dei colleghi speleologi rimasti intrappolati in una grotta del bergamasco.

Sempre vivendo a Bologna le occasioni per l’impegno naturalistico crebbero a dismisura, tanto che alla fine il problema era per me sopratutto  quello di aver il tempo materiale per seguire ogni argomento. L’UBN, la gloriosa Unione Bolognese Naturalisti mi vide sempre tra i più attivi soci ed anche nel Consiglio Direttivo. Così fu per la redazione della rivista “Natura e Montagna”: una palestra senza eguali. Ebbi modo di vivere esperienze dirette con molti illustri autori. Qui c’era anche una fucina più banale, ma assai formativa dei rapporti con la tipografia; poi la “correzione delle bozze” che in quegli anni era un ben duro esercizio. 

In ambito universitario, arrivando a Bologna forse memore come da ragazzo seguissi appassionatamente i racconti di Guido Lombardi, “l’amico degli animali” approdato con successo in TV, pensavo che la zoologia avrebbe potuto essere il mio punto di riferimento nella vita professionale. Invece mi ritrovai “studente interno” a botanica. In quell’istituto lavorai alla mia tesi di laurea su un argomento fitosociologico-vegetazionale, studiando il massiccio del Monte Catria.  All’Orto Botanico c’era tra i vari docenti un professore assai estroverso, con una bella barba, molto alto, di corporatura massiccia. Per la sua descrizione, aggiungeva lui stesso al fine di atterrire qualche tentennante allieva, “ anche dotato di una memoria da elefante”. Pur non essendo mai stato mio diretto docente Francesco Corbetta da allora l’ho considerato il mio “maestro”. Dalla botanica alla conservazione della natura, dalla fitogeografia alla divulgazione scientifica con lui abbiamo successivamente inventato ed animato molte composite attività. Oggi ho solo il rammarico di non aver avuto il professor Corbetta con me nelle foreste tropicali del Congo, ambienti entusiasmanti per un botanico, ambienti meravigliosi che ho frequentato a lungo. Altra irripetibile occasione perduta è stata quella che, ai tempi dell’impegno politico, riuscii a realizzare con la disponibilità di un grosso elicottero della Marina Militare. Con un gruppo di studiosi ci fu data l’opportunità di sorvolare a lungo le scogliere artificiali della costa marchigiana. Il professore però ha sempre dichiarato, orgogliosamente, che non sarebbe mai salito a bordo di un mezzo volante !

Il “maestro” mi coinvolse fin dai primi giorni della nostra conoscenza con la “Pro Natura Italica” e quindi mi ritrovai a collaborare, pochi anni dopo, con la neonata Federnatura, sotto la presidenza illuminata dell’esimio professor Valerio Giacomini. A quei tempi la segreteria era affidata ad un uomo eccezionale: lo scrittore Dario Paccino. Dario era l’autore tra l’altro del famosissimo “Imbroglio Ecologico”, pubblicato da Einaudi. A quei tempi, saltando da un treno all’altro, correvo da Bologna a Roma per rinchiudermi poi nello scantinato dell’Istituto Botanico dove mi attendeva Lia Paccino, moglie di Dario. Qui tra tante scartoffie cercavo di coordinare “l’ufficio studi caccia” della Federazione Nazionale Pro Natura che ai tempi aveva rappresentanti in tutte le province d’Italia. Poi, almeno una volta al mese, facevo anche una puntata ad Ancona dove, oltre ad essere membro del Comitato Provinciale della Caccia, mi ritrovavo, commissario d’esame. Eravamo ai primi rilasci delle licenze venatorie, dopo la nuova legge che prevedeva appunto una  prova d’idoneità .

Erano questi gli anni delle ultime bonifiche e, memorabile per me, fu la lotta contro l’assurdo intervento nella valle del Taglio della Falce, in Romagna. Eravamo pochi ragazzotti, ma spronati ben bene dall’infaticabile professor Corbetta e da pochi altri universitari illuminati. Cercavamo di escogitare iniziative, anche le più disparate, per contestare quegli assurdi, costosi e controproducenti interventi. Conservo un preciso ricordo del giorno in cui, avendo appreso che nella sede della prestigiosa Accademia Nazionale di Agricoltura, all’Archiginnasio di Bologna in via Farini, sarebbe stato presente il senatore Giuseppe Medici, allora Ministro dell’Agricoltura. Così da studente quasi imberbe, mi infilai tra tanti illustri cattedratici, e quindi mi ritrovai a contestarlo. A negare la validità appunto di quelle “bonifiche” che noi, con un neologismo d’occasione, chiamavamo “malifiche”. Non era ancora giunto il “ ’68”, ma così con il solito ancora sparuto gruppetto di amici naturalisti, biologi e geologi lo avevamo di fatto anticipato; per di più con una sostanziale concretezza.

Sempre grazie agli indimenticabili maestri, ed alle sinergie con i compagni storici,  avevamo messo in campo un po’ dappertutto faticose battaglie contro le assurde, costose, inutili ed alla fine anche pericolose mutilazioni delle alberature stradali. In uno degli occasionali rientri nella mia città natale, Senigallia, mi ritrovai di fronte ad una squadra di “falegnami comunali” (termine da me allora usato per “offendere” la categoria dei giardinieri!) che, come di consuetudine, capitozzavano gli alberi, un po’ dappertutto. Fu a seguito di questi episodi che arrivarono qui, proprio a casa mia, il professor Aldo Brilli Cattarini, sempre assieme a Corbetta, per un sopralluogo congiunto con i dirigenti dell’Ufficio Tecnico Comunale. Il fine era quello di redigere dei “ precetti” ai quali, in futuro, si sarebbero dovuti attenere gli operatori del verde cittadino. Ovviamente, come sempre con il nostro consueto spirito civico, l’iniziativa fu svolta “gratis et amore dei”. Purtroppo anche senza grandi risultati  in quanto soltanto oggi, dopo quasi mezzo secolo, si cominciano a riscontrare tangibili miglioramenti nel settore.

Da “studente interno” dell’Istituto Botanico fui avviato, come già dicevo, allo studio per la redazione della tesi sul massiccio del Monte Catria. Una scelta quella del luogo maturata per valutazioni di tipo botanico-vegetazionale, ma forse anche perché l’ambiente appenninico mi era molto caro per l’intensa frequentazione nel tempo libero. Come radioamatore (altro hobby che ho sempre coltivato) andavo con i colleghi sull’Appennino per i cosiddetti contest VHF. Di fatto qualsiasi vetta – per di più solo ad un’ora da casa – era una palestra ideale per questo tipo di attività. 

In seguito, sempre sul Catria, ebbi modo di combattere diverse battaglie ambientaliste: da quelle contro i potenti sindaci dell’epoca ad altre anche contro i frati del Monastero di Fonte Avellana.  Qui scese in campo contro di noi, per difendere questi veri interventi vandalici, persino un cardinale. Si trattava della realizzazione della cosiddetta “strada delle Scalette” che saliva dall’omonimo monastero fin al Rifugio della Vernosa.  Quindi giungeva fin quasi alla vetta, laddove c’è una grande croce di ferro. Pensate che ebbero la sfacciataggine di dire che così, con la strada, si sarebbe  “aiutata la gente ad essere più vicina a Dio”!

Della lunga parentesi africana, due anni passati nella foresta dell’Ituri in  Congo tra i Pigmei e gli okapi quando ero volontario della cooperazione civile, non è il caso che dia  conto su queste pagine.  

La parentesi di vita all’Equatore comunque mi ha consentito di coltivare molti e disparati interessi, alcuni delle quali anche brevemente descritti in brevi testi pubblicati su diverse riviste. Il racconto dell’ascensione al Ruwenzori del capodanno 1973 venne ospitato da “Natura e Montagna”; in altre sedi specialistiche ho pubblicato ulteriori articoli come quello sui magnifici “basenji”, i cani da caccia dei Pigmei. Scrissi anche qualche osservazione su uccelli equatoriali sempre raccogliendo un vasto repertorio di fotografie, sia  in bianco e nero che diapositive a colori. L’archivio conserva immagini relative agli aspetti ambientali della foresta equatoriale del Congo, nonché altra documentazione su particolari aspetti di vita e costumi delle popolazioni indigene.

Avendo comunque mantenuto, per quanto possibile a quei tempi vivendo – si badi bene – al centro dell’Africa, una discreta  rete di contatti epistolari, con i più cari amici ed i più significativi maestri, al rientro (1973) mi ritrovai di fronte ad una lunga serie di argomenti ed a molti soggetti con i quali, da naturalista, potevo nuovamente impegnarmi. Cercando di contemperare i problemi di gestione della nuova famiglia, con due figli,  e della professione appena intrapresa, presso il Dipartimento Ricerche dell’INRCA, mi ritrovai comunque coinvolto in ulteriori difficili battaglie. 

Cito come esempio quella contro il costoso, nocivo ed assurdo inceneritore di Ancona in costruzione presso la Rocca di Bolignano. A metà degli anni ’70, quella mattina del 16 agosto (data classica per i blitz autoritari), ero sul cantiere. In compagnia degli abitanti del luogo, che frequentavamo da mesi, ci trovammo a resistere pacificamente di fronte al massiccio schieramento di Carabinieri e Polizia, in rigoroso assetto anti-sommossa con tanto di elicottero d’appoggio. Presenti dal fronte ambientalista però eravamo solo in due! Il rappresentante di Italia Nostra ed il sottoscritto, per la Federazione Nazionale Pro Natura. Lo sottolineo per contrasto di quanto poi accade negli anni e nelle stagioni successive quando, sul carro degli ambientalisti, si affollarono in tanti. Direi che in certi momenti di particolare richiamo mediatico i partecipanti erano così numerosi che valutai la compagnia assai poco confacente. Più volte quindi restai in disparte. Come quella volta che uscii dal WWF al momento della cooptazione, si badi bene non all’elezione, per la presidenza nazionale, di Susanna Agnelli.

A Senigallia, nel 1971, assieme ad alcuni amici storici, tra i quali voglio ricordare Carlo Riginelli, Renzo Paci ed Elio Ronchini fondammo la locale associazione naturalistica, aderente alla Federazione Nazionale Pro Natura. Questa, denominata Associazione per la Difesa della Natura e del Paesaggio, fu molto attiva per tre lustri  consecutivi, sia su scala cittadina che regionale. Quando dopo i primi anni di attività ravvisammo l’opportunità di coordinare e razionalizzare interventi e proposte per l’intero territorio marchigiano materializzammo questa esigenza con una nuova entità di coordinamento, denominata CINAM, il Coordinamento Interassociativo Naturalistico Marchigiano. Vi aderirono diverse associazioni, molto legate al territorio, come ad esempio l’Argonauta di Fano, ma anche altre realtà di scala regionale come le rappresentanze di LIPU, WWF e Italia Nostra.

Lunga, interessante anche se un po’ faticosa è stata senz’altro l’esperienza della redazione e della direzione di “Natura nelle Marche”, il periodico naturalistico regionale che iniziammo a stampare, davvero artigianalmente, grazie all’aiuto  ed alle oggettive capacità di Francesco Fragomeno, un generoso naturalista della prima ora.

Così avvenne anche con vari momenti “politici” nella lunghissima e complicata vicenda della genesi dei parchi del Monte Conero e di quello dei Sibillini. Parchi ai quali giungemmo solo dopo anni ed anni di faticose battaglie, certo con legislazioni finali di compromesso, ma anche attraverso un iter, che specie all’inizio, fu davvero esemplare. E’ il caso di ricordare come l’avvio concreto delle proposte si ebbe quando con uno sparuto gruppetto, i Radicali delle Marche di allora, decidemmo di attivare (si badi bene che ciò avveniva per la prima volta nella nostra regione!) lo strumento delle proposte di legge di iniziativa popolare. Suscitando un certo scompiglio riuscimmo comunque a portare le proposte di legge, sottoscritte dai nostri concittadini, in Consiglio Regionale. Il professor Franco Pedrotti era il primo firmatario di quella sui Sibillini ed io il secondo. Per l’altra, relativa al Parco del Conero, fu mia la prima firma. Da qui partì l’iter legislativo vero e proprio, un percorso del tutto nuovo per noi proponenti, al contempo anche una impegnativa palestra, dovendoci confrontare, in sede di IV^ Commissione Consiliare, con diversi scafati marpioni della politica. Non si trattava soltanto di misurarsi sul fronte procedurale della politica, ma anche di comunicare, di relazionarsi con tutti i marchigiani. In particolare con i molti avversari, che sopratutto sul tema “parchi”, erano decisamente prevenuti, assai agguerriti ed anche capillarmente presenti sul territorio.

In questi anni per quanto attiene gli aspetti professionali, mi trovavo impegnato su temi di ricerca in campo etnoiatrico. Seguivo in particolare la fitoterapia in campo geriatrico ed alcuni aspetti di biometeorologia. Avevamo ricerche sul campo, con colleghi di diverse nazioni e queste si svolgevano dagli ambienti estremi delle Ande peruviane a quelli, comunque più vicini e familiari, delle isole del mediterraneo orientale.

Nel frattempo il dibattito politico all’interno del mondo naturalistico e protezionistico si andava articolando su due fronti: quello che riteneva giunto il momento di sostanziare le proposte con una precisa iniziativa politica e l’altro che valutava dispersivo e pericoloso questo eventuale ingaggio. Dal questo secondo punto di vista, al quale ero sempre stato legato, mi convinsi di passare al primo, quello cioè dell’impegno diretto. 

Il momento esatto fu quando nella mia area politica di riferimento, il Partito Radicale, maturò la decisione di far scendere in campo alcuni militanti ecologisti con la neonata formazione europea dei “Verdi”. Al momento delle elezioni regionali del 1985 venni così eletto  consigliere regionale delle Marche.  Da qui l’esperienza di cinque anni, molto piena ed assai coinvolgente, fino al 1990. Esperienza che proseguii poi fino a metà del 1995, scadenza della legislatura, anche nel tentativo, direi parzialmente riuscito, di “portare a casa dei risultati legislativi”. Volevo che fossero in qualche modo significativi per le idee e per le proposte del fronte ambientalista. Ad esempio la legge istitutiva del Parco del Conero, quella antesignana dell’anagrafe canina, l’altra innovativa che vietava l’uso dei fitofarmaci nei centri abitati, o quella per il recupero delle case coloniche marchigiane. Purtroppo però  le battaglie su questo fronte portano sempre a “risultati di mediazione e di compromesso” dovendo relazionarsi con maggioranze politiche scarsamente recettive su questi temi . 

Infine, nel rispetto della decisione assunta fin dall’inizio del mandato (cioè “ che l’impegno in politica fosse a tempo definito”) non cercai ed accettai altre offerte troncando quindi il già lungo impegno allo scadere del secondo mandato. Rientrai così al mio lavoro dal quale mi ero messo subito in aspettativa. 

Quelli erano comunque anni difficili per i rapporti con determinati settori dell’ambientalismo sempre più partitizzato, che nel frattempo era decisamente cresciuto come momento associativo ed organizzativo, un po’ in tutta la penisola. Per radicate motivazioni di “moralità istituzionale” ero sempre stato convinto e determinato nel non concedere “benefit” di nessun tipo ad amici e conoscenti, ma solo ad idee e progetti inappuntabili. Fu così anche durante la mia esperienza di governo, quale assessore all’ambiente. Intendo dire che sono stato impermeabile verso quei piccoli favori che in genere un po’ tutti i politici elargiscono, ovviamente sempre a spese del pubblico, ai vari ambientalisti semiprofessionisti che s’infilano nel mondo associativo e del volontariato. Per me è stato così. Purtroppo però nelle gerarchie regionali di allora, nei quadri di una pur meritoria associazione, il WWF delle Marche, qualcuno se ne dolse e quindi censurò questa linea di rigore. Credo così che offrii a questi signori l’opportunità di vedermi assegnato il cosiddetto “Premio Attila”. Ora, come allora, ne faccio occasione di vanto.

Alla fine del mandato, ritornato al lavoro come dipendente INRCA, seppur con differenti mansioni da quando ero andato in aspettativa,  ripresi con molta moderazione il contatto con il mondo naturalistico. Così è stato dal 1995  al 2010. In questo periodo ho prodotto una discreta quantità di lavori, di carattere assai eterogeneo tra loro, pochi però di taglio prettamente naturalistico. Quasi nessuno dei testi è riconducibile ad attività associative tradizionali. Quanto scritto può essere considerato attività da pubblicista (ed infatti lo sono stato) oppure da blogger. Quest’ultima situazione, nuova e stimolante, l’ho vissuta ovviamente negli anni 2000.

Infine vorrei ricordare il Comitato per la Difesa degli Ecosistemi e dei Biotopi Naturali che nacque da un’idea di naturalisti in erba e divenne subito una realtà associativa in ambito universitario. All’epoca eravamo nella seconda metà degli anni ’60. Era quello il periodo durante il quale cercavamo di escogitare  iniziative e  proposte pratiche per promuovere la effettiva tutela delle valli e delle pinete ravennati nonchè delle zone umide del delta padano. 

Da allora quel “comitato” è rimasto sempre in vita come un gruppo ristretto, ma solidale e dinamico sodalizio d’amici. Anche in questi anni, dopo quasi mezzo secolo dalla fondazione, c’incontriamo e ci sentiamo con discreta regolarità. Di recente purtroppo uno di noi – che ricordiamo sempre con immensa nostalgia –  è deceduto. E’ Paolo Boldreghini, l’ornitologo per antonomasia.

Mi congedo dai lettori (che abbiano avuto la bontà di seguirmi fin qui), con questa foto d’epoca, scattata al Faro di Goro. Siamo noi del “ Comitato”.

Nell’immagine si riconoscono, in piedi da sinistra a destra, Paolo Boldreghini, il sottoscritto Gianluigi Mazzufferi, Leonardo Senni, Massimo Pandolfi e Giancarlo Plazzi;  sotto, in ginocchio,  Federico L. Montanari e Carlo Ferrari.

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