I cani dei pigmei nella foresta dell’Ituri

Nemmeno ventiquattr’ore dopo essere arrivato qui nella foresta dell’Ituri incontrai il primo cane dei pigmei. Se dovessi dire che cosa mi colpì di più in quell’incontro probabilmente esiterei a rispondere, in quanto la mia attenzione era, in quelle prime ore, molto assorbita dall’ambiente, dal paesaggio del tutto nuovo che per alcuni aspetti realmente mi sconcertava.

Ricordo assai bene però che guardando il cane ebbi l’impressione di incontrare un animale intelligente, agilissimo, molto attento sia nell’ascolto che nello sguardo; osservazioni, tuttavia, fatte non in base a conoscenze cinologiche (che non posseggo), ma a un po’ d’esperienza e di spirito d’osservazione. Dopo oltre un anno di vita qui, nella foresta, posso affermare come la prima impressione fosse giusta e centrata. Ho visto questi cani in tutti i villaggi pigmei che ho frequentato, li ho osservati durante la caccia e nelle escursioni e ora, con convinzione, debbo ribadire l’opinione che questa razza è senza dubbio la migliore, la più adatta all’ambiente forestale e alle attività venatorie che abitualmente persegue. In questi territori, ancora così integralmente naturali, ci si convince senza fatica che la selezione ha operato fin dai tempi più lontani in modo spietato, ma validissimo, giungendo a dei risultati incredibilmente unici nella loro funzionalità. Tentare una descrizione della razza è la prima cosa che mi accingo a fare, anche se ritengo che i dati di seguito riportati possano assumere un certo significato solo se il campionamento degli esemplari venga effettuato su un’area più estesa di quella che sono in grado di battere abitualmente nelle mie escursioni a piedi. Guardando il cane, che è sempre molto magro, si ha subito l’idea di un animale leggero: in generale il peso oscilla dai cinque agli otto chilogrammi con un’altezza media al garrese di 38-40 cm, senza variazioni di rilievo tra maschi e femmine. Gli arti, che possiedono un buon appiombo, terminano con un piede piccolo, piuttosto allungato (~4 cm) con polpastrelli bianchi e unghie nere, anche se talvolta capita il caso contrario delle unghie bianche e dei polpastrelli neri. 11 dorso è solido, ma per quello che può esserlo in un animale di questa taglia; il petto appare in genere non eccessivamente largo, talvolta con una tendenza impercettibile di carenatura. La lunghezza del cane non sorpassa mai i 70 cm, spesso però s’incontrano esemplari più corti di 65. 62 – 60 e anche 56 cm; quello che a me sembra sorprendentemente costante è la lunghezza della coda che è sempre assal prossima ai 21 cm, con un caratteristico ciuffo nero o bianco nella parte distale. Essa è portata gaiamente in alto. arrotolata sul dorso. leggermente pendente da un lato, spesso il sinistro. Non ho rilevato differenze sostanziali di portamento tra il cane in stazione di riposo e durante le sue attività, mentre ho notato che quando mangia, la coda scende tra le gambe pur mantenendo sempre una certa concavità. Qualche esemplare ha piedi bianchi, come se portasse delle eleganti scarpette, ben intonate con il fulvo del mantello, colore questo prevalente di gran lunga negli esemplari che, a mio avviso, sono più caratteristici, anche se non è infrequente l’incontro con animali pezzati. Questi ultimi, secondo le informazioni raccolte finora, sono in prevalenza di sesso femminile. Il manto rasato è composto da un pelo piuttosto duro ed abbondante, ottima protezione contro le « miiba », cioè le spine, che in foresta si trovano di tutti i tipi e di tutte le dimensioni.” Su un collo di media lunghezza, piuttosto robusto, s’impianta una testa assai piccola (18 cm max), con un salto frontale moderato che porta a un muso di 6-7 cm, molto onnuntito ornato di baffi neri, ispidi ed irregolari. Anche il naso e le labbra sono nere e così i peli attorno al bordo della bocca; spesso la mascella superiore sorpassa l’inferiore con un leggero enognatismo, fatto questo che potrebbe dipendere da una eccessiva consanguineità degli esemplari presi in esame, poiché generalmente ai cani sono offerte scarse possibilità di incrocio. Le orecchie sono un elemento assai caratteristico: inserite ai lati del cranio con una base molto larga (8 cm) sono portate rigidamente diritte in posizione trasversale, decisamente verso l’esterno, ma leggermente inclinate in alto, fatto questo che fa risaltare ancor di più la forma appuntita del muso. In media misurano sui 6 cm di lunghezza e terminano con una punta leggermente arrotondata. La cartilagine, che forma il padiglione, è mediamente sottile, ma con un notevole ispessimento verso la base, forse per un logico motivo di statica. Nel bordo superiore hanno un andamento rettilineo con una piega che ne ispessisce il tratto prossimale per 1/3 0 1/2, mentre curvilineo è quello inferiore sulla cui metà avviene la piegatura quando l’orecchio si abbassa per scendere in posizione

di riposo. Nel momento in cui il cane corre esse si ripiegano leggermente all’indietro; in questi atteggiamenti appare all’osservatore il grado elevato di leggerezza e di velocità con cui l’animale si muove ed anche la prontezza con cui evita tutti gli ostacoli. L’occhio è sempre decisamente a mandorla; prevalgono i colori scuri (bruno, nero, marrone scuro) anche se capita di imbattersi in esemplari con occhi chiari, azzurrognoli. Le femmine (una volta all’anno) partoriscono in media cinque cuccioli con punte massime di otto e minime di due. Allattano per circa quarantacinque giorni e i giovani, già a tre mesi, escono a caccia con la madre, mentre da soli, qui mi assicurano, sono abili a tale servizio dopo quattro o cinque mesi. In genere i pigmei cacciano con le reti; qui, nella mia zona, spesso preferiscono l’arco e le frecce, naturalmente avvelenando quasi sempre queste ultime. I cani si dimostrano ottimi soprattutto nel primo tipo di utilizzazione, ma se il pigmeo ne possiede uno, lo porta assai spesso con sé anche se effettua il secondo modo di caccia.

Quando tutto il villaggio decide di effettuare una notevole battuta con le reti, bisogna che esso disponga di almeno due o tre cani, numero minimo occorrente per soddisfare alle normali necessità. I villaggi poveri, che non hanno cani a sufficienza, utilizzano come surrogato le donne, le quali, in quanto a far baccano e a mettere in fuga I selvatici, non sono certamente da meno dei cani stessi che, appena presa l’emanazione della preda, incominciano ad abbaiare furiosamente spingendo, con un magnifico senso d’orientamento (che in foresta, posso assicurare, non è facile). Gli animali verso i cacciatori o meglio ancora verso il proprio padrone che il cane riconosce sempre con spiccata predilezione. Durante la caccia però molto spesso il leopardo o un qualsiasi serpente velenoso uccide il fedele collaboratore; del primo specialmente potrei dire che sembra ricercare il cane quasi con una crudele predilezione. Quanto potrebbero vivere questi cani? | pigmei che però, vi assicuro, non sono attendibili in fatto di date dicono che

potrebbero raggiungere i trent’anni, cioè vivere più di «noi », noi pigmei, la cui vita media è senza dubbio molto corta.

DI vecchiaia questi cani non hanno la fortuna di morire: la vita che fanno è dura. Godono si dei comforts della casa dei loro padroni (una capanna di foglie costruita in dieci minuti). Ma

quanto al cibo debbono accontentarsi di manioca e patate dolci. È vero però che gli intestini della cacciagione sono quasi tutti per loro. Comunque, a mio avviso, i cani dei pigmei patiscono spesso la fame come, del resto, i loro padroni. Questo è uno degli inconvenienti più gravi sicuramente generato dal contatto, seppur marginale, con la civiltà. Un cane che muore mette in lutto tutto il villaggio; i pigmei arrivano a fare persino il kilio, cioè una specie di pianto o lamentazione funebre usuale per gli uomini e che può durare anche due giorni. Il cane, infatti, è uno di loro. Andaraka mi diceva molto seriamente: «Tu non sai, i cani sono uomini come noi, quando noi parliamo, essi ci ascoltano e ci comprendono ». Nel villaggio fa ottima guardia: i suoi padroni lo definiscono come lo « zamu mucubua », cioè come la migliore di tutte le sentinelle e non credo che sia un guardiano che prende molta confidenza con gli estranei perché, se mi capita d’avvicinarmi a una capanna non accompagnato, posso star certo di sentire un brontolio poco rassicurante. Il cane è piuttosto mordace e anche se ama giuocare con i bambini spesso, nervosamente, stringe un po’ troppo. Si affeziona moltissimo al padrone, ma riconosce e segue con simpatia altre persone con cui si è abituato ad andare a caccia. In questa sede non è possibile indagare se il cane possa o meno affezionarsi, dopo un ragionevole periodo di tempo, ad un altro padrone perché chi ha un cane se lo tiene e chi lo vuole ne prende uno mutoto, cioè cucciolo. Queste sono le abitudini della zona e c’è da ritenere che non ci saranno elementi capaci di modificarle in quanto gli indigeni sono attaccatissimi a tutte le loro tradizioni, anche quando non sono capaci di spiegarne il significato. Concludo con una curiosità che ha stuzzicato assai il mio interesse e spero che abbia lo stesso effetto per chi legge queste note. Prima di andare a caccia, i cani debbono essere preparati; di loro descrivo come viene fatta. Si raccolgono le foglie di tre differenti specie vegetali, assai facili da rintracciare in foresta. Le si riduce. accuratamente in poltiglia triturandole fra due pietre; poi si cerca una foglia di grandi dimensioni, anch’essa di specie ben determinata, che serve per impacchettare il miscuglio triturato e successivamente diluito in acqua. Deposto questo involucro vicino al fuoco, non sulla fiamma diretta, c’è da attendere che l’infuso sia pronto; allora con una punta di freccia ben affilata si incornicia il naso della bestia di molteplici tagliuzzi, che naturalmente cominciano subito a sanguinare. L’infuso versato sulle ferite fa effetto rapidamente e lo si constata, dicono loro, dal tremore diffuso su tutta la pelle del cane. Ci siamo, l’operazione è finita. Fra quattro giorni comincerà la caccia.

G. Mazzufferi

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