Ho cambiato più volte idea sul come stendere queste pagine

di Gianluigi Mazzufferi

Ho cambiato più volte idea sul come stendere queste pagine.
Riflettendo, è indubbio che sarebbe stato meglio uno scritto organico per riassumere fatti e ricordi degli oltre trent’anni che mi hanno visto molto vicino a don Enzo, per due anni addirittura all’equatore, di casa assieme. Sarebbe stato bello condensare così le esperienze più significative della vita quotidiana, i momenti intensi di fratellanza spirituale emersi lungo un percorso che alla fine è un’intera vita. Mi sono reso conto però che non sarei stato capace di tradurre nero su bianco questi sentimenti. Visto anche l’obiettivo di questa pubblicazione, credo che la semplice narrazione di alcuni fatti, episodi di vita, occasioni allegre e non, oppure qualche racconto di altro tipo possano consentire, a chi lo vorrà, di ricordare e di comprendere al meglio, la figura e la testimonianza di don Enzo Formiconi. Recuperando le lettere e molte altre carte, mi si è offerta l’occasione di riportare, cosa che farò soprattutto nella seconda parte di queste note, molti passi, anche qualche pagina di suoi scritti. È il don Enzo più genuino, in diretta, che non va perduto.

Ho in parte visto altri scritti; molte pagine ospitate in questo volume mi sembra offrano senz’altro riflessioni, approfondimenti e motivazioni di sostanza, certamente importanti. Ciò mi rallegra ed alleggerisce quindi il mio compito. Pertanto ringrazio di cuore gli amici che si sono prodigati ed impegnati in questo sforzo.

Dovendo comunque recuperare diverse immagini di don Enzo, scatti collezionati anche a ragione della mia antica confidenza con la fotografia, ho preferito esporre, così come incontrerete tra poco, alcuni flash. Sono racconti e memorie della vita di tutti i giorni, fatti che, se hanno trovato uno spazio nei ricordi, debbono aver avuto significato in quel tempo. Spero quindi che qualche aspetto utile emergerà anche oggi, nel momento in cui si legge.

Ho visionato per l’occasione diverse lettere e varie altre carte, sempre da me gelosamente conservate, ed ho riscoperto aspetti della personalità e del carattere di don Enzo che il tempo aveva in qualche modo appannato. Forse anche i molti anni trascorsi, specie dopo l’esperienza vissuta assieme e per molti aspetti assai intensa, della missione in terra d’Africa, hanno opacizzato ed ingrigito eventi e situazioni che allora erano forti ed intensi. Rileggendo ora le carte, ed anche facendo decantare i ricordi per tempi più lunghi del solito, ho ritrovato alcune delle tensioni del tempo, le motivazioni più profonde, le ansie che abbiamo vissuto, le incertezze ed anche le probabili esagerazioni di quei momenti e di quelle esperienze. La mia opinione è che, rivisitando ora la documentazione, emerge senz’altro l’indubbia ricchezza e la grande valenza dell’uomo, di questo “amico prete”. Don Enzo ha fatto le sue scelte dopo aver maturato profonde convinzioni ed ha vissuto sempre una spiritualità molto intensa. In tutti i casi, i più disparati, ha saputo dimostrare una profonda, quanto garbata, dedizione per il prossimo.

In definitiva l’esempio per noi tutti è stato forte e costante: grazie don Enzo.

Come, dove e quando ho conosciuto don Enzo

L’ho conosciuto a Senigallia, nel severo palazzo dei Portici Ercolani dove abitava; esattamente in via Testaferrata. Posso dire di essere arrivato a lui con un “giro di ragazze”. Infatti, una collega che studiava come me a Bologna, conosceva bene i miei interessi e le mie curiosità. Sapeva che in quel periodo, di sera, alternavo le lezioni di un corso biblico a S. Sigismondo con gli allenamenti di tiro a segno, al Poligono di Borgo Panigale. Tra di noi parlavamo spesso di temi religiosi e quindi intuiva che avrei chiacchierato volentieri con qualche “prete in gamba”. Un prete laureato in scienze naturali, quando in genere i suoi colleghi sono umanisti, storici o letterati andava benissimo. Avevamo il medesimo curriculum di studi. Lui era un evoluzionista convinto, un insegnante motivato ed aggiornato, un buon naturalista, formato con completezza all’Università di Pisa. A sentir parlare di lui s’intendeva subito che doveva essere una persona con i fiocchi; se poi, come sapevo, era stato “messo un po’ in disparte” dalle gerarchie più tradizionaliste e preconciliari, meritava attenzione.

Oggi ritrovo tra i miei libri, quasi a confermare la continuità di questa prima conoscenza, un piccolo volumetto della Queriniana “La Messa sul mondo” di Pierre Theilhard de Chardin. Negli anni poi abbiamo sempre colloquiato su questi argomenti, anche se ora il rammarico è di averlo fatto troppo poco. Dall’annotazione sul libro rilevo che m’era stato regalato da don Enzo nel dicembre del 1990, vent’anni dopo il nostro primo incontro. Erano quelli i giorni, alla fine del ’90, del secondo periodo africano. Il “secondo periodo”, così c’intendiamo, è stato quell’esperimento che don Enzo ha voluto fare rientrando in
Africa, sempre per insegnare presso l’Istituto Professionale “Bernardo Longo”. Ancora alla scuola di padre Silvano Ruaro, il cuore pulsante della prima missione di Nduye, poi trasferitasi per forza di cose a soli 60 km, a Mambasa, importante nodo stradale. Questa mirabile opera di formazione, ancor oggi in crescita e sempre più qualificata, è una specie di miraggio per il Congo, dopo Nduye, la prima missione dei Dehoniani in quella regione, fondata da padre Bernardo Longo. Mambasa di fatto è divenuta nel tempo il centro delle attività educative e missionarie dei nostri amici. Si trova nella regione dell’alto bacino del fiume Congo, cioè nella foresta dell’Ituri, ad Est del paese.

Ricordo confusamente le prime occasioni d’incontro qui nelle Marche, a Senigallia, a Fano, nel suo paese natale di Belvedere Ostrense. Ho ben impresse in mente però le immagini di quella stanza della “Fraternità”, a Senigallia, nell’appartamento di via Testaferrata. Che rammarico non aver fatto delle fotografie! Soprattutto della cappella, dove Anna Lorenzetti Cattani, una geniale artista del giro, ragazza
estroversa e creativa, aveva realizzato un fascinoso dipinto, per me
ignorante in materia, d’aspetto piuttosto strano. Credo che volesse così dar gloria all’Eucaristia: sul muro un trionfo d’azzurro con tante sfumature; però anche con un ciuffo di penne, anzi di piume svolazzanti, incollate al centro del dipinto, verso l’angolo della stanza. Così l’artista dava gloria a Dio non senza suscitare in me, osservatore grezzo, molta curiosità e tante domande irrisolte. Ricordo anche che un pomeriggio sul portone della casa di don Enzo, sotto il portico, mi colpì l’immagine di una ragazza che, un po’ di fretta, suonava il campanello: era Piera. Piera, molto legata a don Enzo e ad alcune persone del giro, avrebbe poi condiviso con me il resto della vita.

Ricordo molto bene quando andai in via Testaferrata per salutare don Enzo, dicendogli che avevo maturato con certezza la decisione di partire per l’Africa. Superate le pastoie burocratiche che si presentavano contorte ed inaspettate, nei prossimi mesi sarei senz’altro partito per il Congo. Il progetto originario prevedeva il Chaco, desolata regione al nord dell’Argentina, ma oramai ero certo, attraverso i Dehoniani ed il GLM di Bologna, che invece sarei andato a Nduye, nella foresta dell’Ituri, proprio nel bel mezzo dell’Africa. Quindi avrei lavorato alla scuola professionale creata laggiù da padre Bernardo Longo, il missionario italiano assassinato dai Simba durante i terribili anni della ribellione. Con il martirio del missionario, durante la ribellione cosiddetta dei Simba, anche la scuola era andata in malora.

A questo bel progetto di recupero della missione di Nduye era stato destinato anche un giovane e dinamico prete dehoniano, padre Silvano Ruaro, che sarebbe partito di lì a poco.

Così come dicevo a tutti coloro che incontravo in quei mesi, feci anche con don Enzo la solita battuta: “Perché non vieni anche tu?”. Un’esclamazione mi sorprese, mi fece sussultare: “Sì, allora vengo anch’io!” Credevo scherzasse, ma disse esattamente così. Poi cercai di comprenderne i motivi, le cause, le ragioni profonde e vennero alla luce alcuni degli aspetti più significativi, ma solo alcuni credo, in quanto don Enzo era molto riservato.

Infatti, in quei giorni, non so ancora bene come e perché, s’era chiusa definitivamente la sua esperienza di docente al Seminario Vescovile di Fano. Avrebbe terminato l’anno scolastico e quindi don Enzo stava cercando, lo compresi solo dopo, un’occasione forte e significativa per mettere a disposizione la sua professionalità d’insegnante, offrendo al contempo il servizio da religioso che in questo caso acquisiva maggior significato in quanto era possibile la condivisione dell’esperienza missionaria. La Diocesi, altre realtà italiane, anche le prospettive vagliate nei suoi sempre desiderati ed intensi colloqui con il “padre”, cioè con il Vescovo come lui lo chiamava, non erano stati in grado di offrirgli qualcosa di significativo e di completo (vedi pag. 209).

Tanto fu estemporanea la decisione, tanto furono rapide le risposte ed i passi successivi con gli amici di Bologna e Milano, cioè con i “basisti” di quei missionari e di quelle suore che in Africa ci attendevano come fossimo scesi dal cielo.

Non ci furono difficoltà per don Enzo da parte del Vescovo, al quale subito si rivolse. Se non ricordo male, ma lui non lo disse mai, la partenza per l’Africa avrebbe semplificato la gestione della scacchiera dei preti. Qualche sofferenza sì, per la mamma, alla quale Enzo era legatissimo, e che mostrava il peso degli anni.

Poco ricordo della partenza da Roma nel settembre del 1971 (ma altri ne scrivono, vedi Giuseppe Santoni a pag. 89).

Ricordo benissimo però l’atterraggio del nostro volo a Kinshasa: alla grigia luce dell’alba, alle 6 del mattino. Cielo plumbeo, caldo afoso, asfissiante e subito le contraddizioni dell’aeroporto Ndjili. Da un verso la modernità della struttura che con le sue luci che contrastava con tutta quella gente che bivaccava dappertutto. Per noi la situazione era peggiorata dallo stress del viaggio e dagli abiti che avevamo indosso; don Enzo in grigio talare ed io, con un paio di stivali in pelle, che certo sarebbero poi stati essenziali per le escursioni in foresta, ma che in volo su un aereo di linea ed all’arrivo nella capitale erano senz’altro fuori ordinanza.

Ci stavano aspettando. Non ricordo se fosse solo fratel Camillo Pellegrini o anche qualcuno dei padri (Caglioni, Maistro e Ravasio) di Selembao, che era la parrocchia collocata nella periferia povera di Kinshasa. Qui fummo accolti ed ospitati con amicizia e grande fraternità.

Le lettere ritrovate mi consentono di ricostruire bene quel periodo, cioè il tempo che intercorse tra il suo arrivo a Nduye, alla missione, alla scuola ed il mio successivo spostamento da Kinshasa dove ero restato “intrappolato”. Ero rimasto “bloccato” nella capitale, Kinshasa, per colpa della burocrazia africana, ancor più barocca e pasticciona della nostra. Gli uffici statali addetti all’istruzione, pur avendomi regolarmente chiamato dall’Italia e fatto avere il biglietto aereo per andare a prestare la mia opera di volontariato, non erano poi in grado di trasformare il visto turistico, della validità massima di tre mesi, in “visà d’établissement ”. Occorreva un visto valido per risiedere e lavorare in Congo nei due anni previsti e in mezzo alla foresta dell’Ituri, a migliaia di chilometri di distanza non avrei potuto svolgere i passi indispensabili.

Il 7 novembre la lettera di don Enzo contiene le prime impressioni entusiastiche per la “festa” scoppiata per il suo arrivo. “suono di campane, tam-tam, archi, luci riaccese, ecc. Delusione ero solo”. C’era stato purtroppo quel viaggio in Land Rover, da Bunia a Nduye; arrivando si era ritrovato “tutto ammaccato”, a causa della solita situazione delle strade (che poi peggiorerà ancora nel tempo). Sottolinea ripetutamente la delusione che vivono alla missione perché “ti aspettano come non immagini”, ma insiste anche su un altro aspetto che è legato alle grandi attese dell’esperienza africana: devo raggiungerlo perché “in due si va meglio”! Quindi come spesso faceva, in modo assai semplice e piacevole, scherza e riferisce di aver raccontato, ai padri ed alle suore, che “finora ho solo detto i tuoi pregi, quando ci sarai tu comincerò a rivelare i tuoi difetti”.

Altre due lettere, il 14 e poi il 21 novembre. Entrambe monocordi sull’attesa che giunga finalmente a Nduye e su quanto potrei e dovrei fare per accelerare al massimo gli iter burocratici nella capitale. Urge anche la mia presenza in quanto i ragazzi più grandi della scuola, venuti anche da “400-500 km di distanza”, se la prendono con padre Silvano. Cominciano addirittura “ad incolparlo di menzogna perché il tecnico non arriva”. Si vede che don Enzo sta studiando assiduamente il francese: riporta una citazione evangelica, sempre sul caso del mio ritardo, questa: “Ce que tu as à faire, fais-le vite” (Jo 13,27).

Ovviamente ritorna ancora una volta sulle motivazioni profonde del suo, del nostro impegno e sottolinea: “…desidero la tua presenza per tentare una vita comunitaria anche con Ruaro: preghiera, scambio, verifica. Ci vuole questo perché è tanto grande quanto abbiamo iniziato. Dobbiamo ritrovare il movente e la concretezza. Per il contatto con la natura ce ne avremo del tempo, vieni e vedrai”.

Infine l’ultima missiva, con qualche altra frase scherzosa, come questa “…qui ci sono tanti animali stupendi … una voce ha detto quando verrà Gianluigi ce ne sarà uno di +!”. Poi traspare anche una prima, primissima considerazione (che emergerà più avanti, specie il terzo anno, dopo il mio rientro in Italia) relativa al fatto che avverte lui già qualche elemento di disagio e così ne scrive: “…qui non va tutto bene il fattore verifica; io ho bisogno di parlare con qualcuno, la situazione e i metodi mi fanno molto riflettere”. Come sempre era abituato a riflettere profondamente su quello che faceva, come e perché lo faceva, con chi e con quali implicazioni. Una sua caratteristica che non lo lascerà mai, quella dell’approfondimento, un’attenzione meticolosa, non so se, alle volte, esagerata.

Ricordi della vita di Nduye, nella foresta dell’Ituri

Dei molti aspetti riferibili ai due anni vissuti assieme a Nduye, ovviamente ne ricorderò solo alcuni, ed in estrema sintesi.

Chi leggerà vi potrà trovare o riconoscere, lo spero, alcune sfaccettature della complessa personalità di don Enzo. Va detto prima di tutto che la sua presenza non si riconduceva soltanto agli aspetti del servizio liturgico e nemmeno a quelli del continuo, coinvolgente e davvero qualificato impegno scolastico.

Don Enzo aveva motivazioni profonde su cui s’imperniavano le scelte che aveva fatto. Certo era un “timido” e non le aveva sbandierate ai quattro venti, però le aveva analizzate confrontandole con persone di profonda spiritualità e di grande esperienza ecclesiale. Lui non esternava mai con durezza, con fragore, in maniera eclatante le sue idee. Qualche rara volta però s’arrabbiava! Spesso gli dicevo che “soffriva in silenzio”. In missione ha cercato sempre di dare la testimonianza di fede con uno stile garbato, del tutto suo, molto personale.

È stato sempre molto ascoltato dai missionari, anche da quelli “storici”, che avevano appunto vissuto le atrocità della guerra, della “ribellione” e tra questi, per primo, sicuramente da padre Luigi Noacco. Padre Silvano Ruaro ci parla di don Enzo alle pagg. 222-223. Per non dire delle suore, le Comboniane della collina di fronte, tra noi e la montagna della Mukongia, che chiedevano sempre, ai miei tempi, che fosse lui a celebrare la Messa nella loro cappellina o a predicare gli esercizi. Così almeno i primi due anni. Per lui era una festa se poteva andare per le preghiere, per qualche ritiro… ed anche per il pranzo. In queste occasioni gustava davvero tutti i cibi manifestando apprezzamenti e lodi alla cuoca, suor Raffaella Falcone, che si applicava con passione, anche se gli ingredienti erano semplici ed il tutto veniva preparato in estrema semplicità. Comunque la loro cucina, la “cucina delle suore” era infinitamente più gustosa e curata di quella del nostro Etienne, il cuoco tuttofare, arruolato per la residenza dei padri, spesso provato da qualche grosso problema di vita e di famiglia da risolvere.

Don Enzo ha sempre studiato e letto moltissimo. La sua è stata un’abitudine che ha mantenuto e curato con eccezionale assiduità. Prima di ogni occasione liturgica, anche banale e ripetitiva, leggeva e prendeva appunti; cercava anche di preparare dei foglietti riassuntivi, delle “scalette” che poi distribuiva ai partecipanti. Le sue omelie non erano mai improvvisate; però non erano prolisse ed avevano sempre precisi ed argomentati riferimenti alle scritture ed ai testi sacri.

Anche per la scuola cercava, applicandosi davvero con impegno, tutti quei modelli, quelle similitudini, quegli esempi che fossero tra i più efficaci per chi doveva apprendere. Preparava sempre specifici esercizi applicativi e li risolveva lui stesso, prima di assegnarli agli allievi. Con tutti era di un’attenzione umana senza limite: conosceva e seguiva le difficoltà di molti, con attenzione e con una riservatezza ammirabile; direi di più, un’attenzione non comune ai suoi colleghi ed ai suoi confratelli. Non si abbandonava mai a giudizi improvvisati, magari a battute ironiche sui vari “sfondoni” che comunque collezionavamo a scuola, lavorando su una base di allievi molto grezzi e necessariamente assai poco acculturati.

I mille ananas

Le occasioni per affrontare discorsi e scelte di qualche impegno non mancavano quando ci si incontrava per i pasti. Però si concentravano soprattutto la sera, quando ci si soffermava sotto la veranda a leggere oppure a scrivere (su leggerissimi fogli di carta velina) alla fioca, ma familiare luce dell’Aladin (lampada a petrolio). La sera il generatore per l’illuminazione delle aule scolastiche, per la chiesa e per la “casa dei padri”, veniva spento molto presto, per risparmiare il gasolio di cui facevamo provvista anche a 600 km di distanza.

Un giorno stavamo discutendo animatamente con padre Silvano circa il progetto, già avviato, di allestire oltre l’orto (una palestra che ci vedeva impegnati tutti i giorni!) anche una bella piantagione di soli
ananas. Fatti un po’ di conti, considerato il ciclo della pianta ed il fabbisogno della missione, insistevo sull’obiettivo di arrivare a piantarne almeno mille per assicurarsi così di averne tre o quattro al giorno. Don Enzo di solito non partecipava molto a queste discussioni; questa volta, forse in presenza di un entusiasmo eccessivo da parte di padre Silvano, e mio in particolare, ebbe a dire sommessamente: “Scusate, ma noi eravamo venuti a Nduye per le anime, non per piantare gli ananas”. Mi uscì spontanea ed immediata una battuta che lui, sensibile più che mai, non prese affatto bene. Nel tempo, infatti, ebbe a ricordarla più volte. In quel momento di colpo, brutalmente, gli dissi: “Lascia perdere le anime, qui adesso è assolutamente prioritario l’obiettivo dei mille ananas”.

L’incidente liturgico

Un fatto per certi versi similare accadde anche durante la celebrazione della Messa, in periodo pasquale, messa concelebrata da lui e padre Silvano con padre Luigi al centro, quale padre superiore della comunità. Purtroppo il nostro anziano missionario era già molto stanco e confuso e non so bene perché, ad un certo punto della liturgia, invece di leggere il Vangelo, decise, nonostante i cenni dei confratelli, di passare oltre. Ebbe poi anche a spiegarci, apparentemente convinto così come avveniva quando raccontava di fatti strani che si erano verificati “ai suoi tempi”, che la liturgia quel giorno – lui ne era certo! – non lo prevedesse affatto. Per quanto ricordo don Enzo da questo “trauma” ebbe conseguenze per diversi mesi. Lo vedemmo subito addolorato, sofferente e men che mai si poteva tentare un approccio scherzoso sull’evento, come a me invece accadeva di fare.

Un ricordo francese

A proposito di momenti allegri e di scherzi, per i quali credo di essermi dato abbastanza da fare in Africa, vorrei raccontare un episodio relativo alla nostra esperienza di preparazione linguistica, vissuta in Francia a Lione, nell’estate del 1971. All’epoca, soprattutto per me, era indispensabile dare una buona “sistemata” alla lingua francese, almeno prima della prova del fuoco, cioè dell’insegnamento in Congo. Decidemmo di recarci per tre settimane presso una scuola intensiva, l’ADIF, a Lione, in Francia. Si aggregò a noi Peppino Santoni, un simpatico amico, uomo di lettere e quindi anche versato nello studio delle lingue. Durante il corso, alle prove selettive, fui il più somaro di tutti. Trovandomi a disagio con la grammatica e con la memoria, mi consolavo ad alta voce, ripetendo agli amici, che avevo bisogno di conoscere la lingua francese, ma che ero destinato soprattutto all’officina della missione. Qui avrei dovuto esprimermi in prevalenza con il martello, le chiavi, il calibro, la saldatrice e gli altri attrezzi dell’atelier, dedicandomi ai lavori pratici e non alle chiacchiere. Così fu: tantissimi lavori su tutti i fronti, e poi, magari con la gente del luogo, mi salvavo con qualche battuta approssimativa in swahili, la lingua dell’Africa dell’Est. Don Enzo, come sua abitudine, studiava molto e s’impegnava con scrupolo, per poter parlare ed anche scrivere senza sbavature di sorta. La sera ripassava ad alta voce nella sua cameretta, ma rifletteva e meditava, come spesso il giorno dopo ci raccontava. In pieno accordo con Peppino, precedendo di poco l’ora in cui si sarebbe ritirato, c’infilammo (a fatica) nell’armadietto della sua stanza e lui, dopo poco, entrò per riposare. Eravamo tesi ad ascoltare, quasi cercando di frenare il respiro, ma riuscimmo a resistere solo per pochi secondi. Quel tanto sufficiente per scoppiare in una risata irrefrenabile. Raccontammo poi d’aver ascoltato, ma non era del tutto vero, che don Enzo si “confessava ad alta voce”, cioè che faceva l’esame di coscienza come lui raccontava fosse abituale prima di coricarsi. Sono stati giorni anche di allegria, sì, ma osservandolo bene, ora è facile dirlo, già s’intravedeva in lui una certa sofferenza per il prossimo pesante impegno in terra d’Africa.

Le divagazioni astronomiche

Di don Enzo un po’ tutti conoscevano la passione per l’astronomia. In Africa, il secondo anno, si era portato un piccolo telescopio. Io gli avevo costruito un pesante cavalletto di legno. Con questo strumento di sera, in condizioni d’osservazione davvero ottimali rispetto a quelle conosciute in Italia, si sbizzarriva e si entusiasmava nelle osservazioni. Così facendo insegnava con facilità molte nozioni ai ragazzi più grandi della scuola. A noi tutti spiegava costellazioni e pianeti; alle suore anche dettagli più generici visto che erano curiose di sapere un po’ tutto ed alcune non avevano nemmeno una preparazione di base per affrontare questi argomenti. Così una sera riuscimmo a combinare l’ennesimo scherzo alle inesperte “suorine”. Don Enzo all’inizio ebbe qualche perplessità, perché, soprattutto alle suore, non voleva raccontare balle di nessun tipo. Ci sarebbe andata di mezzo la sua credibilità. Comunque lo scherzo si sviluppò bene durante l’osservazione dei crateri lunari e culminò, facendo ammettere ad alcune di loro che avevano visto, come noi “giuravamo” fosse assolutamente evidente, i segni del passaggio, le impronte delle ruote del veicolo lunare: sì esattamente il LEM utilizzato dagli astronauti americani.

Il primo rientro in Italia

Era il 1° luglio del 1972; don Enzo aveva lasciato Nduye per rientrare in Italia un paio di mesi. Il primo ricordo viene da Kinshasa: una cartolina illustrata, con le firme anche di padre Natale Caglioni, padre Giuseppe Maistro e frate Camillo Pellegrini della Parrocchia di Selembao. Vi è scritto soltanto: “sto partendo e sono contento”. Queste parole sono proprio sue; fanno trasparire la felicità per il rientro in Italia, l’attesa d’incontrare la mamma, gli amici, per le vacanze estive. La gioia di don Enzo è un sentimento che voleva e sapeva sempre partecipare agli altri affinché fossero lieti con lui. Era una sua caratteristica marcata e molto personale.

Don Enzo scrive ancora il giorno successivo; è già in Italia, addirittura si trova nel paese natale di Belvedere Ostrense. “Sono arrivato, tutto bene, una organizzazione perfetta: debbo concludere che Qualcuno dall’alto mi protegge davvero (magari sono nato con la camicia, come dice Piera!). Ho trovato tutto troppo uguale ed il cambiamento troppo rapido di persone e di cose non mi ha permesso l’acclimatazione graduale che è in natura e tanto benefica e provvidenziale”.

Racconta dei suoi, dei miei familiari, di Piera, degli amici tutti e poi fa qualche accenno ai preti e alle visite che ha in programma per domani tra cui “finalmente il mio vescovo (o Padre amatissimo)”.

Importante mi sembra poi questa riflessione sempre sull’esperienza che stava vivendo: “mi pare di non aver risposto che immaturamente ed emozionalmente al gran momento provvidenziale della mia vita. Se non sapessi approfittare di più e meglio nell’accettazione e nel perfezionamento del servizio perderei invano tale occasione di incontro con il Padre”.

Nei giorni successivi andrà in montagna in compagnia di alcuni preti; dal Piemonte ricevo una cartolina illustrata doppia, che riporta due frasi in francese, tratte da scritti di Teilhard de Chardin. Sono un inno all’abbraccio universale con la natura, argomento su cui parlavamo spesso e c’intendevamo benissimo.

Quindi dopo una settimana scrive un’altra cartolina illustrata con fiori di montagna; nel retro c’è una frase in codice tra noi: “Chi ama la foresta le lascia le sue orchidee e le sue safi!”.

Le orchidee in quanto ne avevo raccolta una alta quasi due metri e le sue “safi” alludono a, “Safi” così si chiamava una ragazza meticcia, molto bella, che veniva spesso da noi.

Quindi dopo venti giorni dal suo arrivo in Italia un’altra lettera dai contenuti piuttosto pratici e di logistica spicciola, mentre il 1° di agosto, racconta qualcosa sui numerosissimi incontri che aveva avuto, sulle tante persone viste e sui diversi propositi d’impegno, nonché –infine– sull’evoluzione dei rapporti con il G.L.M., l’organismo di volontariato a cui eravamo collegati.

Quanto all’incontro avuto con il Vescovo scrive: “… ne bene ne male… mi lascia ritornare con indifferenza. Grazie!” e s’adopera per l’amico prete-operaio, don Marcellino, in quanto “urge sensibilizzare il clero e responsabilizzare gli amici”.

Racconta così degli incontri con gli amici: “… ho cercato di spersonalizzarmi più che possibile poiché non volevo che i miei rilievi riflettessero le mie insoddisfazioni ed io stesso non fossi guidato dalle emozioni del principiante. Per me è tanto e tanto responsabile il modo di stare laggiù che mi tormenta sempre se sono o no sulla linea di testimonianza cristiana ed umana”.

Infine poi, il 5 settembre 1972, ritorna in Africa insieme a Piera che, per casuale coincidenza, compie gli anni proprio in quella data. Vado io a Bunia, all’aeroporto, per riceverli e ricondurli a Nduye, proprio mentre leggo nelle ultime lettere la raccomandazione che mi dia da fare per preparare “un programma di serenità”. 

La notizia del terremoto in Italia

Sappiamo un po’ tutti quanto don Enzo fosse molto legato alla sua anziana mamma, Annetta. Quindi, in quell’autunno del 1971, aveva sofferto molto per il distacco, per la partenza, per andare laddove non c’era nemmeno un telefono e, di fatto, era impossibile spostarsi. Per quanto cercassi di distrarlo da certi pensieri si capiva benissimo quanto ne fosse continuamente provato.

Un ricordo di una notte particolare potrà dare molto bene il polso della situazione. Dopo tre o quattro ore da quando era tramontato il sole si potevano ascoltare le stazioni italiane in onde medie; ciò per un fenomeno molto noto, legato alla cosiddetta propagazione ionosferica. Don Enzo lo faceva spesso e fu proprio così che a mezzanotte del 25 gennaio 1972 apprendemmo che nelle Marche, proprio nelle nostre città, c’era stato un forte terremoto. Un po’ di preoccupazione per tutti, ma per lui un assillo davvero intenso. Questo non per poco tempo, anche se ascoltavamo nei giorni successivi le notizie via radio, in onde corte, in quanto l’odissea dell’attesa per lui durò 15 giorni. Questi erano i tempi normali di percorrenza della posta, quando tutto filava liscio. Solo quando ricevemmo le lettere specifiche dall’Italia, dalle Marche ci tranquillizzammo tutti apprendendo, nei particolari, cos’era successo.

Con don Enzo sulla strada da Kisangani: il guasto al radiatore

Era il 30 aprile del 1972. Rientravamo da Kisangani e stavolta filavamo davvero veloci, con la solita Land Rover. La strada di terra rossa sembrava in perfette condizioni. Però un sassolino saltato su d’improvviso, non so come, infilandosi tra la ventola ed il radiatore, tranciò inesorabilmente una lunga fetta dei tubicini del radiatore stesso. Fummo bloccati di colpo quindi per un’immediata, quanto totale fuoriuscita d’acqua dal circuito di raffreddamento. Ci accingemmo a vedere cosa fosse possibile fare, con i due ragazzi del V° anno della nostra scuola di meccanica che avevamo a bordo (Cyrille e Christophe). Aperto il cofano, facemmo una specie di consulto attorno al veicolo per cercare di escogitare una qualche soluzione; qualcosa che ci consentisse di riparare al meglio il grave guasto e comunque arrivare almeno al bivio di Mambasa, se non proprio a Nduye. Un nuovo radiatore sarebbe stato impossibile averlo; sarebbero occorsi giorni e giorni, magari chissà andandolo a cercare a Kisangani, oppure spingendosi a Bunia o a Beni. Comunque giorni di viaggio e centinaia di chilometri. Quindi eravamo assolutamente bloccati al bordo della strada, percorsa solo da pochi e malandati autocarri. Magari un paio di noi avrebbero potuto trovare un passaggio, arrampicati sui cassoni di questi improbabili veicoli. Anche così non si poteva certo lasciare il veicolo, con le provviste a bordo, abbandonato in mezzo alla foresta. Che fare? Prendemmo per buono il consiglio d’esperienza (o di fantasia?) di un vecchio camionista di passaggio. Subito approfittammo degli indigeni che ti compaiono attorno d’incanto quando sei fermo sulla strada, in mezzo alla foresta. Mandammo a raccogliere un paio di caschi di banane, banane sì ma che fossero molto acerbe. Con la pasta ottenuta da questi frutti provammo a chiudere, come se fosse uno stucco, dall’esterno i piccoli, ma numerosi tubicini per far restare l’acqua nel circuito. Il tentativo messo in atto più volte riusciva, ma era efficace solo per la durata di pochi secondi, quando il veicolo era fermo ed il motore girava al minimo. Poi il “tappo di banane” saltava! Quindi spettava a me decidere e ruppi gli indugi: iniziai a smontare il radiatore. Dovevo provare per forza di cose un intervento di “chirurgia ricostruttiva”, fatto però alla bella e meglio. L’operazione veniva portata avanti chiudendo uno ad uno tutti i tubicini del raffreddamento, privandoli prima delle alette che staccavamo con le pinze. Soprattutto importante era non peggiorare la situazione. Così alla bella e meglio, poco prima del calar del sole, che si sa all’equatore ha il crepuscolo molto rapido, riuscimmo a rimontare il radiatore ed a mettere in moto. Per quanto fosse ridotto il volume d’acqua circolante, di un quarto almeno, e pur avendo diverse perdite continue, l’auto era comunque funzionante. Però erano necessarie ripetute “trasfusioni” (di fatto bisognava aggiungere acqua ogni 10’) e quindi occorreva anche cercarne altra per rinnovare la scorta della nostra piccola tanica, prelevandola dai ruscelli della foresta. Comunque riuscimmo così fortunosamente a rientrare a Nduye, a tardissima notte. Durante questa riparazione all’africana in piena foresta, si noti bene con mezzi di fortuna e con la più assoluta incertezza sul risultato, sembra che mi siano sfuggite diverse parolacce. Don Enzo era emozionato e preoccupato forse anche più di noi; era plausibile la prospettiva di una notte all’addiaccio. Lui era anche abbastanza provato per la stanchezza del viaggio. Non potendo far nulla di pratico per aiutarci dapprima ci stette a guardare da vicino; poi prese a passeggiare per lunghi tratti verso Est, forse leggendo il breviario, e di certo recitando tutte le preghiere possibili. Aveva un aspetto assai strano in quanto sembrava (non solo a me, ma anche ai nostri allievi e compagni di viaggio) che fosse caduto in tranche. Lo vedevamo del tutto assente dalle preoccupazioni molto pratiche e materiali del momento.

È un ricordo intenso che purtroppo, data la congestione del momento, non ho avuto modo di fissare, anche con una sola fotografia. Sull’agenda ho ritrovato poco più della data, ma certo non è stato un giorno qualsiasi!

Successivamente, ricordando l’episodio, cercavamo di scherzare sul suo aiuto. Enzo insisteva asserendo che era stato anche lui partecipe del nostro lavoro e che quando s’allontanava per pregare lo faceva solo per “neutralizzare” quegli sprazzi di turpiloquio. Si è vero, qualche parolaccia mi sfuggiva quando si tranciava, senza possibilità di rimedio, anche un solo tubetto del nostro preziosissimo radiatore.

Il terzo anno

Don Enzo già prima di partire per la missione aveva già deciso che sarebbe comunque rientrato alla fine del primo ciclo d’insegnamento, quindi nell’estate del 1972. Così, anche su questo “ciclo ridotto” scherzavamo un po’; spesso sottolineavamo che se i missionari restavano sul posto tre anni ed io laico ero a presidiare Nduye da due anni ininterrotti, lui come prete secolare, anzi come “monsignore”, avrebbe dovuto fare più e meglio di noi!

Però don Enzo ritornò ancora in Africa dopo il mio rientro in Italia alla fine dell’impegno assunto, quindi nel settembre 1973. Sapeva che rientrando in patria avrei sposato Piera: così fu nel novembre del 1973, due mesi dopo la fine dell’impegno africano. A lui dispiacque molto che non gli fosse stato possibile celebrare questo matrimonio. Anche per questo motivo, scherzando come sempre, più o meno dicevo così: “Poco male Monsignore, visto che diverse delle coppie da te sposate non hanno retto a lungo…!” La battuta era un po’ pesante per lui. Si capiva che cercasse d’evitare quest’umorismo consolatorio, forse eccessivo per i suoi gusti, per il suo carattere, su argomenti davvero impegnativi che coinvolgevano la sua più intensa partecipazione.

Di quegli anni ho conservato tutta la corrispondenza. Da un rapido riesame, per quanto possano essere non del tutto in ordine quelle carte, ho riscoperto con piacere, ma anche con sofferenza, ulteriori nuovi elementi di conoscenza e di riflessione sul nostro rapporto. Di fatto dopo tanti anni è divenuto più facile approfondire quei lunghi periodi vissuti assieme. Oggi è più agevole cogliere l’essenziale di quelle impegnative esperienze ed alla fine è indubbio constatare come ci siano stati molti elementi di profonda consonanza. Senz’altro ritrovo quel piacere che il tempo trascorso assicura alle cose buone.

Sinteticamente potrei riassumere scrivendo che appaiono evidenti due grandi linee di quel periodo: per lui l’esperienza missionaria e di docente della scuola, con un’impronta profondamente religiosa e spirituale. Per me l’impegno, assai più pratico e materiale, con aspetti sociali e/o umanitari. Vi vedo una forte sovrapposizione del comune impegno, una netta complementarietà che non è da sottovalutare. Inoltre è sempre indubbia la valenza di quei caratteri cristiani che erano allora, come oggi nel ricordo, il più significativo dono di don Enzo ai suoi amici, a tutti coloro che comunque lo hanno conosciuto.

Dall’Africa a Roma: storia di un anno difficile

Quando rientrò in Africa per l’anno scolastico 1973-74 si pose il problema delle fotografie. Ai tempi in cui ero presente, come nel resto delle occasioni della mia vita, m’era toccato il ruolo di fotografo di turno. Sempre, in tutte le occasioni liete e dolorose, ma ora don Enzo avrebbe dovuto arrangiarsi da solo. Pertanto gli passai una Voinglander Vito CD, una 35 mm a telemetro di buona qualità per l’epoca, robusta, che, di fatto, non sbagliava una foto in quanto dotata di un esposimetro incorporato (non comune a quei tempi). Dopo qualche mese mi scriveva: “Per le foto non credo siano un gran che per la mia inesperienza e per i soggetti che mi sono capitati…”. Dopo le prime prove un po’ titubanti don Enzo riuscì a scattare delle buone fotografie; quando non avevo più rimproveri tecnici da fargli, visto che spesso i soggetti delle riprese erano le allieve della scuola delle suore comboniane, lo riprendevo comunque sottolineando che era un po’ criticabile che un prete fotografasse soprattutto le ragazze… e così poco i maschietti!

Le “ragazze” erano le allieve della scuola superiore, gestita dalla Suore Comboniane, che con lunghe procedure si agghindavano il capo realizzando complicatissime pettinature artistiche, diverse queste a seconda le tradizioni e le usanze delle tribù africane di provenienza. Don Enzo era molto orgoglioso delle sue allieve; con alcune di loro ha poi mantenuto contatti per tutta la vita ed ha sempre conservato queste fotografie, appese al muro della sua stanza, sicuramente tra i ricordi più cari.

Don Enzo ripartì per l’Africa all’inizio d’ottobre; il giorno 6 per l’esattezza era a Kinshasa per proseguire poi per Kisangani e quindi per Bunia. Appena giunto, anche perché poco portato per la gestione dell’ordinaria logistica (in Congo sempre piuttosto difficile!) scrivendomi già s’interroga: “… ma come farò a Bunia??” Poi le prime avvisaglie che ci fanno intravedere come non avrebbe sopportato affatto bene i successivi eventi.

Gli impegni dell’anno scolastico erano pressanti e le notizie da Nduye, in quel momento una missione con tanta gente, poco buone. Era comunque giunta una suora per sostituire suor Luisa Capra. Però don Enzo scriveva: “di suor Giovanna sanno solo che non torna (che vigliacche, perché non dicono il motivo!)” A seguire qualche cenno sulle cose pratiche di tutti i giorni come la gestione delle Land Rover. Ancora le preoccupazioni sul fatto che i “motori dell’elettricità sono in panne” quando sapeva che da Butembo stavano per arrivare 60 allieve per la scuola. Erano quindi queste difficoltà ed incertezze a preoccuparlo. Tutto questo avrebbe condizionato molto la sua pur abituale routine. Lui lo sentiva già e mi scriveva: “… che sarà molto, troppo diversa sia per il vuoto di te, Luisa e Giovanna, sia per i rapporti e metodi troppo lontani dalle mie vedute”. Ecco la prima lettera, da Kisangani, il 7 ottobre del 1973.

Scritto a Nduye, il primo foglio che giunge in Italia è datato 6 novembre. Porta anche la triste notizia della morte, per annegamento nel fiume Congo, nella missione di Basoko, di padre Danilo Ceresato. Il resoconto della vita sul posto comincia male: “… tutti i difetti passati sono arrivati alla linea che io deploro: non adesso, ma presto racconterò i particolari… anche la salute così, così… Mi restano solo le alunne… È facile prevedere il mio futuro, se non voglio invecchiare ancor più presto!” Il 13 dello stesso mese una nuova lettera, e come quasi sempre una anche a Piera, più articolata. Comincia così: “Gianluigi carissimo e desiderato in questi frangenti”. Poi “… se io fossi il primo responsabile, in coscienza mi ritirerei in buon ordine… nonostante la gente che crede nella bontà della causa, per me diventa un problema la collaborazione (lo è sempre stato!)… un po’ di buona volontà debbo riconoscerla negli altri, ma tanta, tanta incoscienza…”. Poi l’elenco degli avvenimenti fino al punto grave, che non condividendo certe scelte ed avendolo esternato, s’è sentito dire: “Se ne vada !” La sua risposta: “Me ne andrò da solo !”.

Scrive sempre don Enzo: “… anche la preghiera mi è più difficile… l’incontro con il Padre è abituale ed immediato, ma con gli altri si fa scontro. Non è tanto lo stato di gioia che m’interessa (sono di natura timoroso e dubbioso, quindi scontento), ma è la sostanza di una vita che se ne va.”

Così a novembre e solo dopo un mese, la successiva lettera, precisava che quanto esponeva era: “… per me stesso, per la situazione, per poterla vivere un po’ con qualcuno, se no… si scoppia”. Quindi altre precisazioni della situazione difficile che s’era creata, anche per la partenza di padre Silvano, rientrato in Italia: “… quasi nessuna comunicazione con l’esterno, solo una volta la posta da quando sono arrivato. Si aggiungono altre bestialità: si lascia la scuola delle ragazze senza inglese. I professori indigeni sono solo del III° anno (principianti)”. Quanto alle Suore: “… la consigliera di Roma, delegata, ha forse raggiunto il suo scopo e farà carriera, ha distrutto la Comunità di Nduye. Sr. Giovanna non verrà più = è volontà di Dio. Io sto aiutando 5 ragazzi a lasciare Nduye per altri istituti (faccio male?). Molto mi ha meravigliato la contrarietà di Silvano per Giovanna e quella di Suor Rosa… non mi fanno predicare alle suore, non fanno venire le ragazze qua in casa. … se pensi ai tuoi ultimi giorni di qua puoi comprendermi…”.

Poi, dopo diverse considerazioni sugli uomini e sulle attività in corso, ecco queste parole: “Mi è calata la forza fisica, ma non quella morale di essere me stesso e di continuare sulle mie scelte, mi rammarico solo di essere solo gli altri anni-adesso! Credo verrò presto a casa! e ringrazierò Dio”.

Alla vigilia di Natale ancora una lettera, dalla quale appare prima di tutto rinfrancato per aver ricevuto tre mie missive. La posta, in Africa, quando giungeva arrivava tutta assieme, in un unico sacco. Appare felice per aver predicato la Novena di Natale in francese, anche se dice di aver quasi letto i testi e mi informa che ha anche cominciato a: “… confessare in swahili ma solo a chi capisce anche il francese”. Purtroppo la situazione in generale non va bene e scrive che “… sul piano sociale – cioè di rapporto esterno – si sente fuori da un programma o da una problematica in genere = credo potrebbe essere un motivo per rientrare. Infatti ho solo possibilità di parlare con i miei alunni (5 uomini su 92), ma in una impostazione del tutto diversa a quella che gli altri (le Suore) vorrebbero!!”

Prosegue ancora nel racconto con “qualcosa di particolare”, non senza giudizi duri. A me sembra che impieghi termini davvero inusuali per il suo linguaggio abituale, come ad esempio il termine di “ipocriti”. Tra le altre notizie comunica di aver anche scritto “alla Generale di via Boccea” (la casa madre delle suore n.d.r.), e quanto alla vita in missione tristemente ammette “sto zitto, ma di un silenzio che non è meditazione; sono più povero che mai d’iniziative e di volontà. Ma l’Avvento qualcosa mi ha portato… lo scriverò a Giancarlo di Spello”. Quindi mi fa sapere che: “… agli amici ho finora detto solo del problema scuola”.

Sempre circa la scuola, prosegue così: “Certo la sento la tua mancanza, anche se non siamo riusciti in una concordanza di metodo, in uno scambio veramente fruttuoso e benefico. E non so anche che cosa gli altri possano dire di te e di me; una cosa certa potrebbe essere quella che ci hanno accettato, ma ben volentieri emarginato per quello che poteva essere il loro stabilire, fare, progettare. Finché si fa comodo… ma per loro (in generale) è così: saranno capaci a conservarti un’amicizia di sentimenti, ma mai una compartecipazione. Poi fanno e disfanno a piacere. Silvano ha guastato il tuo orto per allargare il recinto delle 11 mucche. Luciano restringe il recinto solo sopra l’atelier. Testa leva tutte le pietre della strada che tu hai messo e fa disboscare (quasi) tutta la collina – adesso si vede la pietra grande. In chiesa Noacco non fa leggere né le maestre né i ragazzi, solo i chierichetti. Ha fatto un sacco di battesimi a Natale, ciò che Ruaro non voleva. Dalle suore tutto è chiuso a chiave, anche la stanza di mezzo (clausura, dicono, più che per paura dei ladri). Suor Anna ha messo i bottoni rossi. In tutto questo guazzabuglio se ne infischiano degli altri: si salva Silvano, ma per gli altri… Scusa volevo dirti che se c’eri tu almeno si poteva parlare, e anche per me cominciare a pensare a una scelta. È così che mi manchi…”

Circa “i bottoni rossi” sopra citati ci sarebbe da raccontare lo scherzo, da me organizzato, della falsa lettera alle suore di Nduye dalla Madre Generale. Si “ordinava da Roma” di indossare sempre la divisa con i bottoni rossi, addirittura in “nome di Santa Obbedienza”. Scherzo forse un po’ esagerato per le suore che portavano in brousse sempre il solo abito bianco, senza fronzoli e bottoni, e che, nelle poche ore in cui durò prima che fosse svelato, mise gravemente in crisi tutte le suore. In particolare due di loro, suor Luisa e suor Giovanna, si ritirarono in preghiera, meditando addirittura di uscire dall’ordine.

Dopo circa un mese, il 17 gennaio, altra lettera da cui leggiamo: “… ho bisogno di sentirmi con qualcuno… qui c’è un deserto di comunicazione e di scambi”. Inoltre cerca con ansia di avere dei dati su quanto avviene nella Diocesi di Senigallia, in particolare tra i suoi amici e confratelli preti: “… ho saputo in confusione la storia di Marcellino – gruppo, don Angelo. Ma cosa succede?”.

Circa la prosecuzione dell’insegnamento nel tempo, e direi anche con l’assenza di padre Silvano, la situazione diventa sempre più difficile. Don Enzo si pronuncia così: “… decisamente l’andamento imposto da suor Rosa (e C.) mi sconvolge, e non può implicarmi nelle responsabilità. Disciplina e basta: punizioni a non finire, ristrettezze… e basta. Poi se non hanno ancora l’inglese, se il francese è dato da uno studente del VI° anno, ecc. questo non importa. Ed io che ho portato tanti soldi dove sono andati, purtroppo sono cose esterne, ma sono le sole che ‘esse’ guardano. Metodo?… collaborazione? Materiale?… niente. Scrivo questo perché ogni giorno ci si becca. Allora vengo in Italia? Che ne dite? Non capiscono un tubo di educazione degli altri” Ed a un certo punto, memore forse che qualche volta il nostro pappagallo ripeteva parole poco educate, che mi sfuggivano nei momenti critici, dice: “Io crepo di rabbia e non so dire le parolacce di Gianluigi”. Però poi Enzo ritorna ad essere quello di sempre, con la sua indubbia spiritualità: “… ma quando mi trovo in chiesa con Lui, da solo il discorso si fa tanto concreto: rompere. Che sappiano che penso diversamente – scegli anche senza che ti seguano – ma resta tu stesso. Sto studiando il Vangelo di Marco. Leggo Arturo, mi sento da un’altra parte”.

Il 10 febbraio si lamenta ancora della scarsa posta che riceve e che “dagli amici di Senigallia niente da tanto tempo”. Poi un accenno al tema: “mi sono deciso a scrivere al Vescovo (mio am. Padre)” e poi “…vi dico che ho quasi deciso: resterò in Italia, proprio per la situazione di qui… si procede al solito: anzi (con la mancanza di Silvano) è accentuato l’aspetto che abbozzo: la Missione è tutto… mandando a farsi benedire ogni aspetto di testimonianza. Tu mi capisci perché sai il luogo ed il mio pensiero”.

La corrispondenza davvero eccezionale, sofferta e significativa di questo lungo anno solitario continua così il 13 marzo: “… perché vorrei raccontare tante cose a qualcuno, a te, come a colui che può meglio comprendermi conoscendo luogo e persone ed un po’ per l’affetto sincero che conservi”. Prosegue poi raccontando come, di fatto, si è messo nei guai per colpa del sole, di “fratello sole”, a seguito dell’iniziativa di condurre qualche esperimento astronomico. Così: “anzi fratello sole, mi ha fatto un brutto scherzo”. Alle ore 12 volevo misurare il meridiano con la direzione dell’ombra”. Era quindi restato a lungo all’aperto, forse senza copricapo; da qui i primi disturbi poco dopo, poi con diversi strascichi nei giorni successivi. Di fatto s’era buscato un’insolazione.

Procedendo ancora nel tempo, siamo nel 1974, riporto altre sue considerazioni. Queste sono scritte dopo che, anche in Zaïre (il nome di allora del Congo), si era appreso della morte di Suor Luisa… avvenuta in Italia. Eccole: “Artificiale, come la loro regola, il modo di suffragio delle Suore. Spingere eccessivamente il loro sacrificio di stare qui, di donare la vita… e fanno pregare tutti i giorni 3-4 volte al giorno le ragazze per Sr. Luisa. Pensare che questa estate non l’hanno neppure interrogata sulla sorte di Nduye. Al contrario mi sento di esserle grato per quanto ha fatto per me (considero sempre provvidenziale questa esperienza) posso dispiacermi per la sua chiusura ad un dialogo o scambio di esperienze che mi hanno fatto mal progredire verso il luogo e verso la scuola”. Ancora notizie, ma con commenti e riflessioni profonde: “Oggi è arrivata la Suora per l’inglese… ma è troppo tardi. … È inutile dire che mi sono affezionato sempre più alle alunne (e 4 alunni) –forse non sono libero da sentimentalismi (o conseguente paternalismo), ma purtroppo sono gli unici pronti ad uno scambio anche di ordine spirituale oltre che umano– certamente mi servirà. Non pensare chissà che cosa…”.

Per altri aspetti della vita in missione scrive purtroppo così: “te ne parlo perché non ne posso +! È scandaloso e basta. Altro che testimonianza, ma tant’è. La mia decisione di lasciare trova sempre conferme nei fatti che capitano”. Ad esempio, sempre per la scuola che è il primo problema, decide di affrontare la suora che ne è responsabile e costei “piange perfino”. Di un’altra scrive: “Sai che suor E. (si dice fascista!) ha schiaffeggiato una ragazza. Oggi leggerò nella Messa Mt. 25-28 «io sono venuto a servire»; mi sono proposto di spiegare il vangelo domandando perdono a questi fratelli neri per tutti gli scandali di prepotenza, non so se riuscirò a dirlo per la presenza di suor E.”.

Qualcosa però va meglio, fortunatamente, e mi comunica che: “A Silvano vorrei scrivere qualcosa di più intimamente. Credo possa farlo dopo la morte di Luisa”. Le altre considerazioni sono piuttosto difficili da sunteggiare, ma tutte vertono sullo stesso ordine di problemi. “Come faccio a farti capire per farti comprender la mia ansietà agli amici neri (ragazzi e gente) che io mi dissocio assolutamente dagli altri. Dal regime «disciplinare» (solo) della scuola; da quello «colonialista» della missione? È l’unico modo possibile quello di andarmene! Pensa che non riesco nemmeno a riallacciare un discorso con suor Giovanna. … Non riesco a digerire la sua acquiescenza, una sua obbedienza che qui è solo sofferenza, inganno, tradimento. Spero di vincermi in questa Quaresima, mentre sto meditando la Pasqua, il mistero pasquale, ecc. È più difficile il cammino da solo, ma è sempre bello riscoprire dei valori e delle certezze”.

Così giungiamo, alla lettera del 15 aprile 1974, la penultima spedita dalla missione. Mi riferisce sempre della “situazione strana”, così come ora la definisce lui. Aggiunge che “si tira avanti”, di certo non una bella espressione per lui, per il suo carattere. Si preoccupa che l’organizzazione di volontariato (G.V.C. di Bologna con la quale abbiamo avviato questa esperienza) “… scambi la libertà di scrivere ciò che qui è, per notizie false…” ed esprime rammarico per non avere ora il piacere di uscire oltre la zona di Nduye con persone amiche e così anche nei tempi passati, purtroppo anche con me.

Ecco il suo pensiero, e siamo giunti oramai alla vigilia del rientro: “Non so cosa m’aspetterà in Italia, mi basta la possibilità di uno spazio d’indipendenza da tutta la trafila di cicisbei, curiali, ecc. che mettono sempre una luce falsata sulla tua serietà di vita e di ricerca e la fedeltà alla Autorità (che è per me attaccamento al potere). Se non c’è spazio prenderemo(-rò) ancora il volo! C’è spazio dovunque per gli illusi come me che sperano di trovare gente che fa sul serio nel donarsi agli altri perché credono ad ogni conto dell’esistenza e provvidenza del Padre”.

L’ultima lettera è del 15 maggio, sempre purtroppo con notizie similari sulle persone, sulla scuola e sulla missione. Termina dicendo: “… verrò in luglio”. E così è stato.

Siamo a Roma

Don Enzo ha avuto sempre l’abitudine di attivarsi intensamente, coinvolgendo amici e parenti, quando qualche evento, qualche persona, richiedeva gesti, azioni di concreta solidarietà, magari un aiuto materiale, spesso un atto di generosità di una qualche consistenza.

A titolo d’esempio ripesco dall’archivio questa lettera (qui riprodotta in stralcio). È anche un ricordo che ci riporta agli anni del suo servizio all’Università Cattolica di Roma.

Su questo periodo abbiamo raccolto anche ad altre testimonianze nella sezione “Il periodo romano” di questo volume.

Quel 5 agosto 1985 a Parigi

Su questo particolare episodio, in occasione di una ricorrenza, ne ho scritto, tempo fa, qui http://scaloni.it/popinga/quel-5-agosto-del-1985-a-parigi/. Però la finalità della narrazione era molto diversa. Ora vorrei invece ricordare la partecipazione di don Enzo a quest’avventura, all’impresa di quei pochissimi radicali (e della mia intera famiglia) quando accettò la proposta di venire a Parigi in camper, con Piera e con i miei figli. Avevo combinato una brevissima vacanza nella capitale francese abbinandola all’occasione, da tempo concordata con i miei compagni attivisti radicali, di partecipare alla manifestazione per il 40° anniversario della bomba atomica di Hiroshima. Lui veniva molto volentieri a Parigi in quanto sarebbe poi andato dai cugini che lo attendevano con gioia. Fare il viaggio assieme a noi era per lui una bella occasione, per diversi aspetti anche molto interessanti. La prima difficoltà però dipendeva dal fatto che andavamo in camper. Lui si trovava un po’ impacciato a condividere questo mezzo con tutta la mia famiglia. Alla fine accettò e, rigorosamente equipaggiato con una mini-valigetta contenente l’altare mobile (non avrebbe mai omesso, solo per un giorno, la celebrazione della Messa!) s’imbarcò in allegria con noi. Tutto bene, anzi benissimo durante il viaggio; un paio di giorni interessanti anche per le sottolineature naturalistiche che evidenziavamo da un luogo all’altro. Poi l’arrivo a Parigi e la conferma della decisione di essere presente come spettatore, anche se non di partecipare direttamente, alla nostra manifestazione. La riteneva più che giusta, ma diceva sempre: “Sono un prete!” Infatti, era pur sempre una manifestazione organizzata da quegli sciagurati dei radicali e quindi piuttosto ostica per lui che sottolineava, ad ogni piè sospinto, di essere “un prete”. Partecipò con noi alla riunione in casa del “basista” francese, uomo essenziale, perché si procedesse con una razionale organizzazione. Accettò di restare sempre con noi e, sapendo che mi sarebbe piaciuto molto avere delle immagini, si candidò a scattare le fotografie della nostra impresa. Gli affidai la mia piccola, inseparabile Minox, con 12 pose. Non doveva far altro che inquadrare; l’esposizione era automatica, il fuoco era stato opportunamente sistemato e l’apparecchio, di certo, non aveva mai fallito uno scatto. Immaginavamo che saremmo stati fermati, identificati, ma non pensavamo che saremmo stati anche arrestati. Così avvenne per mia moglie, mio figlio, per me ed un paio dei nostri colleghi attivisti. La vigilanza di fronte all’Eliseo era stata fulminea nell’intervenire: non ci avevano lasciato un minuto di tempo. Quasi non riuscimmo a srotolare tutto intero lo striscione e dei volantini preparati con tanta cura, forse ne distribuimmo solo una decina, non di più. Finimmo dentro un cellulare della polizia, un furgone Peugeot, che ci trasportò al Commissariato La Madeleine per gli interrogatori di rito ed altre formalità.

Don Enzo scattò sì le foto, quasi tutte. La migliore è questa che vedete qui. Di fatto riuscì nell’impresa, quasi impossibile che fossero tutte mosse e sfocate. Quando erano passabili, l’inquadratura era un fallimento: del soggetto si vedevano solo le scarpe, al massimo anche il fondo dei pantaloni! Doveva aver preso una gran paura. Fermato dagli agenti che lo vedevano gironzolare un po’ imbarazzato, costoro gli chiesero cosa cercasse. Riuscì solo a sussurrare, eppur sapeva bene il francese, che voleva vedere la Senna. Il fiume era a 200 metri! I poliziotti, un po’ sorpresi da questo strano turista che sembrava un prete, gli indicarono il fiume pensando che nulla avesse a che fare con i dimostranti. Che strano religioso: passeggiava per Parigi tenendo per mano una bambina, mia figlia Livia di 10 anni! Don Enzo prese una gran paura, questo sì. La sera lo trovammo seduto con Livia, molto preoccupato, sul predellino del nostro camper, parcheggiato nei pressi di Place de la Bastille. Era provato, ma anche felice per aver partecipato ad un’azione così poco pretesca, in senso classico, ma al contempo molto significativa per il contenuto della protesta messa in campo. Negli anni successivi abbiamo ricordato l’episodio, davvero scherzosamente, tantissime volte ed è sempre stato un ricordo particolarmente piacevole per noi tutti.

1990: il ritorno in Africa

Decidemmo di accompagnare don Enzo in questo viaggio anche perché lui stesso lo avvertiva assai più impegnativo di quelli di tre lustri prima. La sua fragilità era forse data dall’estrema sensibilità naturale, carattere questo che aveva di certo sviluppato ancor più con il sacerdozio. Cercava di dissimulare quanto lo faceva soffrire, anche se dipendeva soltanto da trascuratezza o mancanza d’attenzione; di fatto però le situazioni più critiche lui le accusava assai più degli altri.

Era il periodo natalizio e di fine anno; m’allontanai dall’Italia senza particolari problemi. Per di più questo viaggio sarebbe stato l’occasione per rivedere tantissime persone amiche ed anche quei luoghi di cui avevo coltivato e conservato sempre un intenso ricordo. Il periodo del mio servizio volontario in Africa erano stati due anni vissuti con entusiasmo, talvolta anche sofferti, ma indubbiamente assai significativi. Sarebbe venuto con noi mio figlio Marco, allora un ragazzo di circa 12 anni, che comunque era già era stato con entusiasmo in Africa, con tutta la nostra famiglia, cinque anni prima (ed attualmente ci lavora da diversi anni).

È d’obbligo una premessa soprattutto per chi ha già letto le vicende dell’ultimo anno trascorso in Congo da don Enzo (1973-74). Chiunque ne farà agevolmente il confronto. Stavolta don Enzo risulterà ben inserito e lavorerà in un ambiente decisamente migliore. Significativa, essenziale risulterà la presenza di padre Silvano. Quindi, pur con alcune difficoltà di salute, e con diversi anni in più sulle spalle, don Enzo troverà modo di realizzarsi come insegnante ed avrà un’intensa vita spirituale.

Oltrepasso in fretta la parte allegra e festante dei saluti italiani, facile da immaginare. Gli amici di Senigallia, ma soprattutto quelli di Roma, dove in pratica don Enzo era vissuto gli ultimi 15 anni, ci tenevano molto a salutarlo di persona. Le suore pregavano, cantavano e… cucinavano, ma – in men che non si dica – iniziò la fase materialmente più faticosa per don Enzo. Eccoci sul volo per Kinshasa; poi il solito caldo asfissiante della capitale dell’allora Zaïre, una megalopoli sul fiume, sempre immersa nel caos e nell’insicurezza. Fummo accolti con grande amicizia da vecchie e nuove conoscenze che ci aspettavano. Eravamo alloggiati nelle stanzette di Limete e non più in quelle della parrocchia di Selembao. Quindi prendemmo il volo interno per Kisangani. Come sempre si aveva a che fare con velivoli, equipaggi, logistica e quant’altro del tutto “approssimati”. Infine gustammo l’arrivo nell’Africa vera laddove c’è ancora però un’ultima base organizzata: il grande e rosso (colore dei classici mattoni dei belgi) complesso della Procura delle Missioni in quella che fu Stanleyville, oggi Kisangani, la città chiave alla fine del lunghissimo tratto del fiume navigabile (1600 km). Da qui impiegammo due giorni per percorrere, in Land Rover, la strada verso Est, la route trans africana che corre verso l’Uganda ed il Kenia. Passammo una notte a Nia-Nia, da don Giacinto, il missionario che, di fatto, aveva gestito Mambasa fin dall’inizio. Un prete molto noto per le sue capacità pratiche ed anche per i suoi modi di fare piuttosto rudi. Modi generosi e sinceri, ma talvolta così schietti da risultare in apparenza spietati. Viveva in Africa da oltre trent’anni e quando si rivolgeva in modo brusco ad alcuni dei suoi ragazzi, ai frequentatori della missione, appariva evidente tutto il contrasto con la figura di don Enzo, sempre educato e rispettoso del prossimo.

Durante queste giornate di viaggio ho avuto la netta sensazione, anche visiva, dell’affaticamento crescente per don Enzo. Erano passati quindici anni dalla nostra precedente esperienza africana! Se in auto mi trovavo seduto dietro lo controllavo con discrezione dallo specchietto retrovisore: era visibilmente sofferente. Dovevo così frenare anche la mia tradizionale abitudine di posargli entrambe le mani sulle spalle per accennare un “raddrizzamento” della colonna; gli suggerivo sempre di fare il possibile per non accentuare quella postura tendenzialmente ripiegata, china in avanti che era abitudinaria. Poi ormai da qualche anno tendeva ad accentuarla. Da allora cercai d’intervenire con maggior discrezione; si vedeva benissimo che chiedevo qualcosa al di sopra delle sue forze.

Giunti a Mambasa l’accoglienza fu grande, come tradizione di sempre in Africa e nelle missioni. Accoglienza con alcune note di riguardo, specifiche per un uomo, prete ed insegnante, del suo calibro. Verificai che in molti lo chiamavano ancora “Monsignore” in quanto io, nel lontano 1971, usavo con disinvoltura questo termine e, di fatto, avevo fatto credere a tutti che “monsignore”, un titolo che lo scandalizzava un po’, lo fosse davvero.

L’accoglienza fu subito bella e manifesta da parte di tutti. Si sentiva il suo nome in bocca ai padri, alle suore, a Deo Gratias “oggi Syausua!!”, il capo storico della nostra officina, ed alla marea degli allievi della scuola. Si toccava con mano che era un personaggio atteso e che avrebbe potuto svolgere, con profitto, la missione d’insegnante, come sempre offrendo al meglio anche una profonda testimonianza cristiana. Stanco, ma felice: lo si vedeva nei momenti di preghiera, durante la liturgia quand’appariva davvero estasiato. A me preoccupavano (forse anche a lui, chissà?) quei tempi e quegli spazi dedicati alle celebrazioni liturgiche ufficiali. In Africa si sa che anche una normale Messa festiva, lo avrebbe tenuto almeno due ore sull’altare, mentre per la gente che cantava e ballava il tempo volava. In queste occasioni lui sudava, sudava copiosamente sotto i paramenti sacri; aveva la fronte lucida, imperlata da tantissime goccioline.

Quando, con mio figlio Marco, rientrai in Italia, riversando le immagini dalle cassette Video 8, riuscii a montare un discreto cortometraggio. Così fu disponibile per molti amici, e circolò abbastanza anche fuori dal giro più stretto. È stato di certo uno strumento di conoscenza della missione, della scuola, dell’esperienza di don Enzo proprio perché fu proiettato in molti incontri pubblici e nelle occasioni di ritrovo con amici, conoscenti e benefattori.

I resoconti della seconda stagione africana

È del 9 febbraio 1991 la prima circolare che, con Paolo Formiconi, inviammo agli amici di don Enzo. Dapprima riferisce del viaggio, dell’arrivo a Mambasa la vigilia di Natale e quindi circa le iniziative che si andavano delineando. Una delle tante, le famose vasche per l’allevamento dei pesci (la Thylapia nilotica), per il quale avevamo tentato di chiedere aiuti, mai pervenuti, anche alla Regione Marche in quanto disponeva di strumenti destinati ad “interventi di cooperazione con i paesi in via di sviluppo” come nella legislazione allora in vigore. Il report continua poi elencando quanto si faceva per l’invio del materiale destinato alla scuola (apparecchi vari, utensili professionali, cancelleria, ecc.). Non ci si limitava a questo però: farmaci e materiale sanitario erano attesi anche a Kisangani per il dispensario dei carcerati, come i soliti attrezzi tecnici e ricambi per l’officina, per la falegnameria, per l’agricoltura e per la manutenzione in genere di tutta la missione e delle altre collegate.

Il 24 febbraio 1991 don Enzo scrive: “Sono oggi due mesi che sono qui! Sono contento senza nessun rimpianto per le cose lasciate perché vedo che veramente vale la pena di «essere qui», per la finalità dell’impegno, per le persone amiche, per la gente bisognosa di una spinta per superare mentalità, accidie, paure. Non che io mi prefigga tutto questo, ma so di collaborarvi, e questo mi basta. Se poi lo faccio perché credo in Qualcuno, questo accresce la mia convinzione e m’incoraggia per tutti gli imprevisti, gli smacchi, delusioni, difficoltà…”.

E ribadisce anche ad altri, (in questo caso scrive a Piera, mia moglie) che è “… contentissimo, sono sereno e considero un benessere anche per me l’esser qui e dare un po’ di me stesso a questa gente che amo. Comincio ad entrare nella fiducia e nella confidenza dei miei alunni, e questo m’incoraggia. Con Silvano andiamo benissimo, riusciamo a fare vita comune e questo è un dono. Io tengo molto all’orario, al pregare un po’ insieme, a scambiare qualche esperienza… e tutto questo vedo che qui è possibile (le eccezioni le so accettare, oltre che capire)”.

Poi in aprile riferisce così su quello che avviene a Mambasa: “lo sforzo della missione (leggi Silvano) è grande in tutti i sensi. Calcolo economico, distribuzione del tempo, fedeltà ai progetti … ora anche la preoccupazione pastorale che era di Renzo. Tutto ha bisogno d’appoggio, d’incoraggiamento. Grazie”. Quindi ancora: “… ho bisogno di confrontarmi anche con voi, gli amici. Veramente fai capire come non facciamo per coprire le mancanze del Governo, ma perché non danno nulla a chi è nel bisogno (istruzione, sanità, condotta). La paura resta solo nel non saper dare: nel modo e nel contenuto. Veramente sto dando tutto in tempo e sostanza: la scuola più di tutto (ma fu anche il prete!)”

A maggio risponde alle mie lettere che “riceve a raffica” (ero ben memore di quanto avesse sofferto, nel ’74, per la carenza di notizie!). Informa che sarà a Fiumicino il 6 giugno e che conterebbe sulla disponibilità della sua auto, la “Uno”! Quanto ai discorsi che come sempre portavamo avanti (a dire il vero cercavo sempre di stuzzicarlo e provocarlo!) mi risponde così: “Lascia stare Ratzinger e tutti i preti, santi e no, prudenti o ingenuamente fiduciosi di Qualcuno… preferisco ricordarti amante anche di un solo filo d’erba e così sentirti per il «movimento della vita» (o no?)”.

Rientrato in Italia, durante il soggiorno nell’agosto del 1991, scrive a “tutti gli amici che hanno condiviso appassionatamente la storia africana”. Dapprima comunica notizie sulla sua salute, ma preannuncia di già il rientro in Africa per settembre. Cerca di spiegare quali siano i mali dello Zaïre; il fatto più evidente è l’assenza dello Stato: “…ogni servizio è ormai svolto quasi esclusivamente dalle missioni” e quindi c’è una nuova “realtà storica” dove molti “laici cattolici apertamente s’impegnano” e le “comunità di base stanno facendo un vero cammino di formazione e di coscienza critica verso le istituzioni da far ben sperare per un futuro della chiesa autoctona viva”. Circa la sua attività conferma come la scuola sia sempre più “mezzo insostituibile d’educazione, presa di coscienza, autodeterminazione, spinta al raggiungimento di mete future come l’autosufficienza, la promozione del lavoro organizzato, la formazione dei gruppi, ecc.”

Don Enzo ringrazia tutti dicendo che “non c’è ricompensa maggiore di quando s’arriva a capire che si stanno spezzando i legami della gente ad una subordinazione disumana, a certe pratiche divinatorie, ad una superstizione umiliante, ad una fatalità primitiva che fa abbandonare ogni stimolo al miglioramento o al cammino in avanti, per l’igiene, la salute, il progresso in genere… e la pace cristiana arriva ad abolire le rivalità tribali ed incamminare verso valori che umanizzano liberando”.

La sua partenza poi non avverrà più nella data stabilita in quanto “la rivolta dei militari zairesi ha fatto chiudere gli aeroporti e cancellare i voli”. Giunge così il 1° ottobre e lui confessa di “trovarsi psicologicamente a terra… moralmente sereno”. Chiede scusa per non poter manifestare a tutti la gratitudine “per tanta comprensione e per tanto aiuto” che, in effetti, aveva ricevuto in quantità, ma il suo pensiero va ancora “ai ragazzi, ai miei alunni che saranno arrivati dai primi di settembre anche da 300 e più km. Con mezzi di fortuna o con tappe forzate a piedi”. Quindi spera che “dentro la foresta dell’Ituri non arrivi la spinta della ribellione”. Infine chiude con questa affermazione: “mai come ora mi sento di appartenere a questa Chiesa e vi sento con me in questa dimensione di fede e di carità che ci eleva al di sopra di tante esigenze e superficialità della vita quotidiana di qui”. In questi giorni, ai padri missionari di Mambasa, comunica qualche buona notizia. Si tratta del fatto che la Caritas diocesana di Senigallia conferma di avergli assicurato il sostegno per diverse opere, per la durata di un anno. Così anche il Vescovo Odo Fusi Pecci che ha manifestato l’assenso per alcune iniziative da sviluppare presso lo studentato di Kisangani, laddove opera padre Dino Ruaro. Buone notizie quindi che rinfrancano tutti.

Don Enzo preannuncia agli amici la data della nuova partenza con la lettera circolare del 7 dicembre 1991 (consultabile a pag. 216).

È del 21 dicembre 1991 il racconto del viaggio, via Cairo, con arrivo a Nairobi. Poi da qui, con scalo ad Entebbe, arriverà a Bunia, da dove appunto stava scrivendo questa lettera per le notizie di routine.

Il 4 e l’8 febbraio del 1992 due lettere nella medesima busta: tristi notizie. “Non faccio scuola. Siamo in sciopero da gennaio, quindi niente di niente per me. Nonostante tutto, il mio interesse – per l’Istituto Bernardo Longo, per la missione e per la gente – mi fa trovare ogni giorno qualcosa da fare”. E poi ancora: “Qui si vive alacremente la vita della Missione, che come non mai è il punto di riferimento per tutta la gente; Silvano è infaticabile, Nerio ammirevole e completamente esperto come presenza di Chiesa, accoglienza degli altri… e buon umore; Louis Marie e Renzo chiudono il quintetto… ma credo ci sarà una sistemazione diversa. Da parte mia mi sento un po’ fuori, ma l’inattività scolastica mi ha fatto stare con i ragazzi in una maniera differente (in casa innaffio l’orto)”.

Da Bunia il 9 aprile 1992 padre Silvano mi scrive: “Fra poco don Enzo parte per venire in Italia. È stata una scelta difficile e sofferta, ma credo sia opportuno che rientri. La situazione è apparentemente calma, ma siamo in un marasma totale. Siamo in sciopero: oramai l’anno è perso… perso dal 1° gennaio”.

Appena rientrato in Italia, nell’aprile 1992, don Enzo informa tutti gli amici delle motivazioni che lo hanno costretto al ritorno anticipato in Italia. Il documento completo si può leggere a pag. 217

Quindi nell’agosto del 1992 don Enzo scrivendo agli amici per relazionare sulla situazione in Zaïre che è di “scoraggiamento davanti alla degradazione del Paese…” comunica di aver appreso “… da padre Broccardo, tornato da Mambasa, che la scuola non aprirà prima di novembre”.

Sempre in questo periodo, durante la permanenza in Italia, si impegna per altri casi che hanno bisogno d’aiuto. Scrivendo ai suoi “30 amici”, così testuale, chiede sostegno per una ragazza madre che dovrebbe essere ospitata a Marzocca, con il suo bimbo, “per un mese di mare”.

L’ultima comunicazione dall’Italia del 1992 è del 15 novembre (disponibile a pag. 220) con la quale invita ad un incontro di saluto e preannuncia la data della nuova partenza.

Dalla lettera del 17/12/1992 “… dal 4/12 ho cominciato a dare lezione e va tutto bene”. Comunque Enzo aggiunge “…qui non ci sono pericoli in vista… la scuola procede, abbiamo deciso di continuare – l’unico ostacolo è che i professori non sono pagati – pensa la missione. Dureremo?… La salute va bene”. I problemi sono invece di tipo logistico, amministrativo e politico. Il paese è in fermento con razzie dell’esercito e disordini d’ogni tipo. “Il Presidente Mobutu non è più accettato da nessuno, nemmeno dagli uomini della foresta. Ogni tanto dimostra la sua forza. È solo di martedì scorso l’accerchiamento per mezzo della Guardia Civile del Parlamento a Kinshasa. Il capo del Governo provvisorio, Tshisekedi, al contrario, è osannato da tutti, e pare che se lo meriti; a Parlamento chiuso ha fatto, una volta, la riunione sull’erba del prato antistante”.

Quanto ai fatti locali, presso la Missione, così è: “la gente è sempre più povera, i bambini sempre più laceri. Per fortuna hanno potuto raccogliere un po’ di riso, meno l’olio, ma se la cavano”.

Quindi la situazione in generale va “sempre peggio le strade sono sempre più impraticabili… e intanto i prodotti della povera gente marciscono, o comunque non vengono venduti. Pensate alla miseria che galoppa, e si vede anche dai bimbi mal vestiti o coperti di stracci (sic!) o nudi. Per fortuna non abbiamo la siccità di gennaio … aprile, quando non si mangiava”.

Segue un flash su uno dei grandi problemi che dilagano nel Congo Orientale: “Solo che la piaga dei cercatori d’oro li consuma, sia per la divisione delle famiglie, sia per l’abbandono dei campi, sia per l’arrivismo e sia per i pericoli fisici (ieri, a 9 km da qui, ne sono morti due in una buca per una frana improvvisa, altri due sono rimasti schiacciati vivi, ma sono in ospedale)”.

Poi prosegue il racconto legato alla prima preoccupazione, al motivo della sua presenza: “quest’anno abbiamo ripreso con coraggio la scuola; se pensate che oltre un migliaio di alunni gravitano qui alla Missione, e gli esiti sono considerati, dagli estranei, di un livello molto buono. Vorrei allora che pensaste quanto bene ci avete fatto nell’aiutarci col materiale che è già in parte arrivato (ho trovato due container già qui) ed altro che deve arrivare. Sono i vostri quaderni, strumenti di didattica, macchine per il laboratorio di meccanica. Senza parlare degli aiuti in denaro, anche da persone che vogliono l’incognito. A nome dei Padri della Missione e mio ancora una sentita riconoscenza. Per Natale dovremmo essere riuniti tutti sei sacerdoti, tutti in piena attività, per la pastorale, per la scuola e per ogni necessità nostra ed altrui (sapeste di quanti generi!). Ci sostiene la grande voglia di servire i poveri, la speranza di saper seguire le orme dell’Altro, e una serena amicizia fra noi. Il Natale, ormai alle porte, ci porterà senz’altro una carica di entusiasmo. Io so come la Notte Santa qui sarà esaltata nel modo tutto africano di gremire la Chiesa, di cantare, magari a squarciagola, di cibarsi tutti del Pane di vita, rispondendo all’invito del Bimbo di Betlemme: «Venite e mangiatene tutti!» (Matteo 26); poi le ceste dei poveri riempite più del solito con piccoli doni provvidenziali, pieni di carità. Sentendo già il tepore della Festa mi sento di fare una preghiera, e forse un augurio, (quello di Balducci) che non possiamo più vivere senza che questo sia avvenuto, magari 1993 anni fa!”

Infine notizie di lui: “Io sto bene, deciso a completare la mia promessa di servizio ai fratelli neri, sorretto ancora dalla vostra condivisione e dalla vostra benevolenza, (in tre classi ho circa 100 alunni)”.

Il 22 febbraio del 1993 scrive a Paolo Formiconi: “… per la situazione socio-politica non va nulla bene; ma qui non ne risentiamo niente. Missioni limitrofe hanno subito qualcosa, noi no! La scuola continua regolarmente, solo che si protrarrà fino a tutto luglio, per il ritardo dell’inizio. La missione sta facendo sforzi economici per non far allontanare i professori che da settembre non sono più pagati… la mia salute mi sorregge. Il mio spirito di servizio è alto”.

Il 21 aprile 1993 ancora a Paolo: “Continua la mia scuola, ma probabilmente io terminerò prima del convenuto, debbo affrettare anche per andare a Roma, Suor Luisa continua a raccomandarsi per il mio ritorno quanto prima”.

A maggio, il giorno 5, così scrive ancora al nipote: “Lo spirito è sempre alto, perché credo alla «chiamata» ed al valore del servizio ai più bisognosi e spero anche io nella benevolenza di Colui che ha detto «avevo fame e mi avete dato da mangiare»…”. Continua con parole grate nei nostri confronti: “… Per tutto quello che hai fatto e che farai per questa iniziativa mia e degli amici, te ne sarò sempre grato, come pure a Gianluigi. Spero di conservare lo spirito della «utopia evangelica» lontano da tutti i clamori politici; sarò magari ingenuamente tradito da una scelta che non sarà capita da tanti o condivisa solo superficialmente. Ma questo non tocca la volontà di dare, dare ancora…”.

La lettera di don Enzo del 3 maggio è spedita dal Rwanda ed ha questa premessa: “… oramai le notizie-racconto le dirò a voce, fra un mese… la scuola per me sta per finire: qui mi si vorrebbe ancora. Non credo che accetterò, ma vedremo”. Alla fine, per rispondere alla mia costante e scherzosa ironia, trova modo anche di celiare: “…Dio vi benedica in quanto ne avete bisogno (TANTO)”.

L’ultima missiva che ci dà notizie indirette dall’Africa, sempre da Mambasa, è dell’8 luglio. È di padre Silvano Ruaro: “Oggi «monsignore» parte per l’Italia; senz’altro ritornerà per l’inaugurazione della scuola (pensiamo il 12 dicembre) … noi saremmo contenti che si fermasse poi ancora per un anno almeno; la salute è buona e ha svolto con competenza e amore il suo compito … ma tutto è nelle … mani di Dio!”.

Dopo poco invia agli amici la lettera circolare del 1 agosto 1993 (disponibile a pag. 221) che possiamo considerare come conclusiva della “seconda esperienza africana”.

Fine millennio

Tra i ricordi più recenti voglio citarne uno solo, e si dà il caso che sia sempre collegato con la passione per l’astronomia. È il ricordo di un giorno d’agosto, l’11 per esattezza dell’anno 1999, quando in Italia fu visibile un’importante eclissi di sole.

Mi recai a prenderlo in auto dove abitava da poco, alla Cesanella. Finita l’esperienza della Madonna del Sole, a Belvedere Ostrense, viveva, infatti, nell’appartamento sovrastante la casa di Vanda, persona assai significativa per lui negli ultimi anni di vita.

Ci organizzammo per l’osservazione con i vari schermi in vetro colorato da saldatore ed anche con una sorta di elementare “proiettore d’immagine solare”, costruito in casa. Tutto ciò grazie anche all’opera di Paolo, il nipote, che era con noi assieme alla sua famiglia.

Lui camminava già poco e con difficoltà; ospite presso di noi c’era anche un’anziana signora in carrozzella (aveva subito l’amputazione degli arti). Costei era una insegnate molto colta ed appassionata di scienze, di storia ed archeologia. Quel giorno, per quella occasione particolare sia dal punto di vista astronomico che sociale, don Enzo mostrava un momento di tangibile soddisfazione. Scherzammo molto sia durante l’evento astronomico che poi, a pranzo, quando emergeva sempre qualche aspetto della sua golosità. Era quindi facile provocarlo, come di routine ai vecchi tempi, specie durante i pranzi dalle suore.

In questi momenti di relax era del tutto naturale, assai facile, rivivere il ricordo di molteplici episodi della nostra lontana esperienza africana, in gran parte cancellati non solo dal trascorrere del tempo, ma dall’affastellarsi delle esperienze di vita di tutti i giorni. In occasioni come questa venivano ricomposti in un attimo, forse per associazione d’idee.

Ancor oggi il ricordo di questo momento di serenità mi appare come il frutto significativo di questa giornata. Una giornata davvero particolare del mese d’agosto del 1999, non solo per l’eclisse.

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Ndyue, 1972: suor Giovanna Bona con don Enzo durante lo scherzo con la consegna della sciarpa rossa da monsignore
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Nduye, Zaïre, 1971: don Enzo con suor Raffaella Falcone
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Ndyue, 1973: don Enzo scherza con fratel Renato durante la costruzione della trappola per il leopardo
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Ndyue, 1972: da sinistra
Gianluigi, padre Luigi Noacco, don
Enzo e padre Silvano Ruaro, la
sera sotto la tettoia di casa
C:\Users\Pf\Desktop\progetto enzo\FOTO\foto cd peppino\1993 agosto - missione - centralina meteo e telescopio x 240.jpg
Mambasa, 1992: don Enzo
con la capannina metereologica
ed il telescopio sul robusto
cavalletto di legno
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Bunia, Zaïre, 5 settembre
1972: arrivo di don Enzo in
compagnia di Piera
C:\Users\Pf\Desktop\progetto enzo\FOTO\foto cd gianluigi\Congo_DIA_001.tif
– Ndyue, 1971: sugli scalini
della casa dei padri missionari don
Enzo, Gialuigi e i pigmei. Don Enzo
ha in mano una grossa patata
dolce del nostro campo, un pigmeo
con casco di banane e l’altro il
nostro gattino
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Ndyue, 1972: don Enzo con
padre Silvano che consegna dei
diplomi del quarto anno agli
allievi della scuola professionale
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Ndyue, 1971: don Enzo esce
dalla sua stanza
C:\Users\Pf\Desktop\progetto enzo\FOTO\foto cd peppino\1972 ragazzi sul ponte.jpg
Nduye, 1973: don Enzo sul
ponte del fiume Nduye con un
gruppo di Walesse
C:\Users\Pf\Desktop\DE_5_dic_74-corretta-ritaglio.jpg
C:\Users\Pf\Desktop\progetto enzo\FOTO\foto aggiunte\foto enzo gialuigi\Parigi_05_ago_1985_004_02.tif
Parigi, 5 agosto 1985: l’unica
foto del rullino affidato a don Enzo
per documentare la manifestazione
di fronte all’Eliseo
C:\Users\Pf\Desktop\progetto enzo\FOTO\foto cd gianluigi\Parigi_DIA_SRD_1200_bis006.tif
Parigi, agosto 1985: da
sinistra Marco, Piera, don Enzo
e Livia
C:\Users\Pf\Desktop\progetto enzo\FOTO\foto cd gianluigi\Africa_90-91_008.tif
Senigallia, dicembre 1990:
partenza per l’Africa
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Roma, dicembre 1990
don Enzo saluta le suore e le
ragazze della Villa Mater
Admirabilis
Africa_90-91_055.tif
Mambasa, dicembre 1990:
strada Kisangani-Mambasa, don
Enzo dallo specchietto
retrovisore della Land Rover
Africa_90-91_054.tif
Nduye, gennaio 1991: don
Enzo e Marco con la Land Rover
degli anni settanta
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Eclissi_11_ago_1999001.tif
Senigallia, 11 agosto 1999:
don Enzo il giorno dell’eclissi
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Senigallia, 11 agosto 1999: il
giorno dell’eclissi da sinistra,
Paolo, don Enzo, Francesca con in
braccio Giovanni

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